Calcio, cuore, passione, orgoglio, appartenenza. In un'unica parola: emozioni.
Alessandro Del Piero ||| Storia di una bandiera
Stiamo dominando. Palo di Gilardino, traversa di Zambrotta: tutto nel giro di 90 secondi. Stiamo schiacciando i tedeschi in casa loro, a Dortmund, dove la Germania non ha mai perso nella sua storia, e Lippi decide che è il momento di osare: al minuto 104 fuori Perrotta e dentro Alex Del Piero, la quarta punta insieme a Gilardino, Totti e Iaquinta. Del Piero si sistema subito nella sua zona preferita, sull'esterno sinistro, e aspetta fiducioso che il pallone... arrivi. E siccome in mezzo al campo detta legge Andrea Pirlo, il pallone arriva. Sono le stesse zolle dello stesso prato su cui undici anni prima, il 13 settembre 1995, il 20enne Alex da San Vendemiano aveva segnato il primo gol “alla Del Piero” su suolo internazionale, in faccia al numero 3 del Borussia, uno dei più irriducibili mastini in circolazione in Europa: Jurgen Kohler, ex juventino. E il tavolo è apparecchiato per ripetere la stessa giocata, in faccia a un altro numero 3, Arne Friedrich, tra l'altro molto meno spigoloso di Kohler. Ma sono passati undici anni, Del Piero ha 31 anni, è entrato da meno di due minuti ma gli manca lo spunto, la freschezza nelle gambe, non riesce nemmeno a tirare. Troppi muscoli? Troppa polvere? Forse come sempre ha ragione Fabio Capello, che ormai ne ha fatto una riserva della Juventus, solo 17 partite da titolare nel campionato appena concluso, e poi panchine su panchine? Forse Alex Del Piero deve rassegnarsi all'autunno?
Poche ore prima, nel tardo pomeriggio di quello stesso 4 luglio 2006, è andata in scena la requisitoria dell'accusa nel processo di primo grado a Calciopoli: e il procuratore federale Stefano Palazzi ha chiesto che la Juventus venga retrocessa in serie C1, con sei punti di penalizzazione. Si respira l'aria pesantissima della fine di un'era, e il dolore e la fatica di quei giorni pesano di più, se sei da anni il capitano di quella Juventus. Basta questo per giustificare quel mancato spunto? Forse no, forse stiamo facendo troppa poesia: in fondo Del Piero con la Nazionale se n'è sempre rimasto un po' in disparte, mai capitano, oscurato prima da Baggio, poi da Totti, senza più nemmeno la numero 10, e soprattutto senz'aver mai vinto niente. Però aspettiamo. Perché dovete sapere che una volta, Marcello Lippi ha detto: “Per buttare giù Del Piero, non basterebbe una mandria di tori”.
2/26/2024 • 33 minutes, 55 seconds
I successi e i FALLIMENTI del Real Madrid dei GALACTICOS
Inizia tutto da un matrimonio. Michel Salgado, il terzino destro del Real Madrid che un mese prima a Parigi ha alzato l'Ottava Coppa dei Campioni della storia del club, ha appena sposato Malula Sanz, la figlia del presidente del Real Madrid Lorenzo Sanz. Un matrimonio in famiglia: il 5 luglio 2000, alla Chiesa di San Jeronimo a Madrid, è stato invitato tutto il madridismo che conta, e anche qualche forestiero come José Ramon De La Morena, conduttore radiofonico del programma “El Larguero” su Cadena Ser, che qualche ora prima, però, ha ricevuto la soffiata di una notizia che non farà piacere al padre della sposa. Qualcuno sta progettando la scalata al Real Madrid: le elezioni si terranno a metà luglio, Sanz le ha volute anticipare, convinto di vincerle a mani basse ed essere perciò in carica nel 2002, l'anno in cui si celebrerà il Centenario della Casa Blanca, fondata nel 1902. Ma qualcuno vuole fargli le scarpe: e quel qualcuno avrebbe un asso nella manica formidabile, e ancora nascostissimo. Possibile? Possibile, se quel qualcuno è Florentino Perez, il socio numero 5.894 del Real Madrid: la tessera gliel'aveva regalata suo padre, quando lui aveva 13 anni. Un ingegnere dall'aria mite, un costruttore silenzioso, per nulla incline al populismo, che non buca il video, ma che si è dato l'obiettivo più ambizioso che ci sia per un presidente del Real Madrid: riportare il club ai livelli dell'era di Santiago Bernabeu. Ricostruire il mito. E allora ha IL NOME. Un nome che è uscito da un sondaggio commissionato di nascosto da Perez a migliaia di soci del Real Madrid: se doveste indicare un solo nome che sognate di vedere giocare nel Madrid, chi scegliereste? E la maggioranza ha risposto Luis Figo, reduce da uno straordinario Europeo con il Portogallo, e soprattutto il vice-capitano del Barcellona.
Il primo a scrivere di un pre-accordo tra Florentino e Figo, subordinato al risultato delle elezioni del 16 luglio, è stato il giornalista della , ma ad amplificarla in tutte le strade del Paese è De La Morena, che la annuncia in diretta nel giornale radio delle 20:30. Quando arriva al ricevimento, De La Morena viene travolto di insulti da un Sanz inviperito, che davanti a tutti lo accusa di essere un bugiardo. La festa è rovinata. Non s'è mai capito se fosse una notizia vera, un po' gonfiata o del tutto inventata: sta di fatto che Florentino si appoggerà volentieri a questa voce, senza confermarla ma senza nemmeno smentirla, per costruire la sua clamorosa vittoria elettorale. Viene scritto che Florentino ha fatto una promessa a tutti gli 83.697 soci del Real Madrid: se verrò eletto ma Figo non arriverà, pagherò a tutti voi la quota annua di iscrizione al club. Nemmeno Figo pensava davvero che Florentino alla fine avrebbe vinto, e forse quell'autografo sul pre-contratto era stato scritto con mano sin troppo leggera; ma così è, e poi in caso di passo indietro ci sarebbe da pagare una penale enorme, e poi in fondo Figo a Madrid andrà a guadagnare circa il quadruplo di quanto prendeva a Barcellona, e per pagare i 10,27 miliardi di pesetas che spettano al Barça, il neo-presidente attinge anche dal suo patrimonio personale.
E così inizia la prima grande avventura di Florentino Perez a capo del Real Madrid, un'avventura tortuosa, complessa, non priva di frasi oscure su sfondo blanco, che si riassume in una parola di dieci lettere, sei consonanti e quattro vocali, che identificherà per sempre quella squadra in ogni angolo del mondo: GALACTICOS.
2/21/2024 • 32 minutes, 32 seconds
La notte MALEDETTA di Roma-Liverpool 1984 ||| Finale Coppa Campioni
La notte MALEDETTA di Roma-Liverpool 1984 ||| Finale Coppa Campioni
2/14/2024 • 29 minutes, 49 seconds
La MALEDIZIONE del RACING ||| I sette GATTI neri
La sera del 24 settembre 2002, in Argentina, su “Infinito”, va in onda la seconda puntata di “Pasiòn y misterio”. “Infinito” è un canale a pagamento specializzato in storie del mistero, esoterismo, fenomeni soprannaturali. “Pasiòn y misterio” è una serie dedicata ai grandi misteri del calcio argentino. La seconda puntata si chiama “Gato Encerrado”. Che in spagnolo è un modo di dire, significa “c'è sotto qualcosa”, “qui gatta ci cova”. Ma in questo caso il titolo “Gato Encerrado” ha valore anche letterale: perché “gato encerrado” vuol dire letteralmente “gatto chiuso”, “imprigionato”. Sembra il titolo di un racconto dell'orrore di Edgar Allan Poe, un incubo psicologico all'insegna dell'ossessione e della paranoia, ma invece è la realtà – la realtà romanzesca, l'unica possibile, se sei in Argentina e c'è di mezzo il futbol.
Avellaneda è una città qualche chilometro a sud di Buenos Aires che sorge sul fiume Riachuelo, che nell'Ottocento era di fatto il porto della capitale argentina. I due grandi stadi della città si trovano a 300 metri di distanza l'uno dall'altro, cinque minuti a piedi. Uno è il Cilindro di Avellaneda, la casa del Racing, costruito nel 1950, il primo stadio argentino con le tribune interamente coperte: per quei tempi, un gioiello di architettura. L'altro è la Doble Visera, la casa dell'Independiente, la prima squadra argentina a vincere la Libertadores ma senza poi riuscire a trionfare nell'Intercontinentale, perdendo due finali consecutive nel 1964 e 1965, entrambe contro l'Inter. Il Racing è la Academia, maglia biancoceleste. L'Independiente è “el Rojo”, maglia ovviamente rossa. I colori del paradiso contro i colori dell'inferno: potete già iniziare a intuire la rivalità. Il Racing è la squadra per cui faceva il tifo una leggenda vivente della cultura argentina: Carlos Gardel, la cui voce è stata dichiarata dall'UNESCO patrimonio culturale dell'Umanità, tessera numero 11.860 del club e amico personale di tanti calciatori del Racing anni Venti come Pedro Ochoa, citato espressamente in un suo tango, “Ochoìta, el crack de la aficiòn”. Per tanti decenni il “racinguismo” è stato sinonimo di allegria, bellezza, divertimento, ma quando arriva l'Intercontinentale le acque si increspano e ogni partita diventa una battaglia, un gioco da canaglie, uno spettacolo vietato ai minori come tutte le sfide tra Europa e Sudamerica negli anni Sessanta, che alla fine obbligheranno la FIFA a cambiare il format e spostarlo in campo neutro in Giappone. E il triplo confronto tra Racing Avellaneda e Celtic Glasgow dell'autunno 1967 non fa eccezione.
Triplo? Triplo. Perché l'andata a Glasgow finisce 1-0 per gli scozzesi, punteggio che il Racing riesce a contenere anche grazie a un atteggiamento sfacciatamente ostruzionistico, con tutto il catalogo di sputi, strattonate e tirate di maglie sconosciuto in Europa, prendendo di mira soprattutto l'unico campione del Celtic, il numero 7 Jimmy Johnstone, tanto che a un certo punto Jock Stein quasi fa invasione di campo per tentare di placarli personalmente, con un po' di sano buon senso scozzese. Ma al ritorno in Argentina, davanti a 120 mila spettatori il che rappresenta ancora oggi il record di capienza del Cilindro, le cose si complicano ancora prima del fischio d'inizio: una grossa pietra colpisce in testa il portiere Ronnie Simpson, mettendolo fuori combattimento. Alcuni giocatori scozzesi vorrebbero dare forfait, ma a chi va comunicata la cosa? In tutto lo stadio non c'è un solo delegato FIFA né UEFA. Il primo tempo termina 1-1: a un rigore coraggiosamente concesso dall'arbitro uruguayano Marino, e trasformato da Gemmell, risponde il pareggio di Raffo segnato di testa in probabile fuorigioco. L'intervallo dura 26 minuti a causa della protesta del Celtic, che al rientro negli spogliatoi ha avuto la bella sorpresa di non trovare più acqua nei rubinetti e nelle docce.
12/11/2023 • 15 minutes, 19 seconds
Lo scontro RONALDO-IULIANO ||| L’episodio del secolo tra INTER e JUVE
“E comunque quello di Iuliano su Ronaldo era rigore”
“Ma quale rigore, al massimo era ostruzione: punizione a due in area”
“Ma ancora con questa ostruzione? Iuliano lo travolge in pieno!”
“E' Ronaldo che si fa travolgere!”
“Ma tu veramente dopo vent'anni continui a dire che non era rigore? Avevate avuto episodi a favore per tutto il campionato!”
“Ma che stai dicendo? E il fallo di Taribo West su Inzaghi all'andata a San Siro?”
“E vabbè, e il gol di Turone allora?”
“Ah fai lo spiritoso? E allora Calciopoli?”
“Calciopoli cosa?”
“Abbiamo pagato solo noi! E le intercettazioni tra Facchetti e Bergamo? Quelle non te le ricordi?”
Uff...
Il fallo di Iuliano su Ronaldo non sanzionato dall'arbitro Ceccarini è uno degli spartiacque della storia del calcio italiano. È il più famoso errore arbitrale degli anni Novanta, un'epoca post-monopolio televisivo RAI, quando le polemiche risultavano per forza di cose un po' annacquate, diluite dal fatto che se ne parlava solo pochi minuti la domenica sera, al limite il lunedì mattina al bar o in ufficio, senza tornarci su a ogni ora del giorno e della notte. Ma gli anni Novanta erano anche un'epoca pre-Internet: oggi ogni sciocchezza viene ingigantita, amplificata e diventa moltiplicatore di veleno. Nel 1998 ovviamente c'erano già le tv, tante tv, pubbliche, private, locali, romane e milanesi. C'erano i giornali, tanti giornali, sportivi e generalisti, di Torino e di Milano. Non c'era ancora il Web – e menomale. Ma poi anche il Web si è impegnato a rendere eterna questa guerra civile di cui non s'immagina ancora la fine, che gira intorno a quei maledetti cinque secondi attorno alle 16:25 di domenica 26 aprile 1998.
11/29/2023 • 26 minutes
Baggio CONTRO Lippi ||| La FAIDA
Baggio CONTRO Lippi ||| La FAIDA
11/20/2023 • 16 minutes, 32 seconds
La Reggina dei MIRACOLI ||| Da -11 punti alla SALVEZZA
La Reggina dei MIRACOLI ||| Da -11 punti alla SALVEZZA
10/24/2023 • 30 minutes, 45 seconds
Gabriel Omar BATISTUTA ||| La storia del RE LEONE
Quando raccontiamo le storie dei grandi campioni, quando cerchiamo di riannodare il filo
delle loro imprese, ci focalizziamo spesso sui gesti tecnici. Sul colpo a effetto, sul numero,
sulla giocata che cattura l’attenzione quando meno ce l’aspettiamo. Facciamo
inconsapevolmente passare in secondo piano un aspetto che invece è fondamentale per
tutto questo: il corpo. Per ogni gesto tecnico che vediamo, dietro c’è un corpo che deve
non solo assecondarlo, ma proprio plasmarlo. Non è solo questione di mente, di intuito,
della capacità di leggere in anticipo ciò che sta per accadere. C’è anche un corpo da far
funzionare: la giusta coordinazione, lo scatto, il modo di arrivare con i piedi e le gambe sul
pallone prima di calciarlo in rete. E sono corpi, quelli dei calciatori, che vengono martoriati
dallo sforzo. Una fatica che si protrae per anni, una fatica diversa da quella che siamo
abituati a riconoscere in maniera naturale: non è lo sforzo di una persona qualunque che
si alza presto per andare a lavorare i campi, un tipo di pressione che riscontriamo in modo
immediato, che facciamo nostra per empatia, che ci è familiare. Un pensiero comune è
che quelli sono milionari, che è giusto che fatichino ed è ancor più giusto che non si
lamentino. La verità è che i calciatori, come tanti altri sportivi, portano il loro corpo a un
grado di esasperazione talvolta irreversibile. Ogni scatto, ogni conclusione, ogni colpo di
testa, fa alzare l’asticella dell’usura. E poi ci sono i casi estremi, quelli dei calciatori che,
per un motivo o per un altro, finiscono per avere ripercussioni sulla loro vita dopo il calcio.
È il caso di due meravigliosi centravanti che hanno attraversato gli anni Novanta: nel
momento in cui uno dei due iniziava a vivere il momento più difficile, quello che lo avrebbe
poi portato a lasciare prematuramente il calcio, l’altro sbocciava, meraviglioso, bellissimo.
Pur di rinunciare al dolore alla caviglia, pur di riuscire ad avere una vita normale, Marco
Van Basten un giorno decise – sbagliando tragicamente - di farsela bloccare, di rinunciare
alla piena mobilità. Era, secondo lui, il prezzo da pagare per tutti quei tacchetti che
gliel’avevano martoriata. Ma oggi non è di lui che vi voglio parlare, ne del fatto che le cose
per Van Basten sarebbero forse potute andare diversamente, o forse no...Vi parlo di un
uomo che ha legato la propria carriera a un certo tipo di irruenza fisica, un impatto
primordiale con gli avversari e con il pallone, inteso come oggetto da calciare con tutta la
forza che aveva in corpo. E che si è ritrovato, una volta lontano dai riflettori, a dover fare i
conti con delle cartilagini ormai svanite, con il rumore delle ossa che si toccano, con i
dolori allucinanti che tutto questo comporta. Quello tra Gabriel Omar Batistuta e il calcio
non è mai stato un rapporto di amore. È stato un centravanti di mestiere, perché così ha
interpretato lo sport: una professione da onorare, dando in cambio tutto quello che aveva,
cartilagini comprese. E per quella magia che avvolge il mondo del calcio, in cambio ha
ricevuto puro amore.
10/12/2023 • 54 minutes, 32 seconds
Romário ||| Dalle FAVELAS ai 1000 GOL in carriera
«Sono nato a Jacarezinho e sono infinitamente grato alla favela. Qui ho imparato a vivere
con dignità, ho capito che le persone, per essere rispettate, devono parlare in maniera
schietta. Ecco perché dico sempre la verità: non mi importa che possa fare male a
qualcuno»
Rio de Janeiro è una città sterminata. Sotto gli occhi e le braccia spalancate del Cristo
Redentore del Corcovado si cela un mondo: quello smaccatamente turistico di
Copacabana e Ipanema, quello sfacciato e divertito del Carnevale più conosciuto del
mondo, quello capace di racchiudere una foresta, la foresta di Tijuca, all’interno di una
città. Ha ospitato Mondiali e Olimpiadi, è stata capitale del Brasile per quasi due secoli.
Per buona parte può essere paragonata alle principali metropoli mondiali, ma è una terra
di enormi contrasti, emblema del Brasile stesso. Le favelas più conosciute ed estese del
Paese si trovano proprio a Rio: baraccopoli realizzate con materiali di fortuna e strade
nelle quali proliferano degrado e criminalità. Hanno rappresentato l’approdo naturale per
migliaia, forse addirittura milioni, di ex schiavi: nel maggio del 1888 venne promulgata la
Lei Áurea, la Legge d’Oro, che aboliva la schiavitù nel Paese, ultimo atto di un processo di
abolizione che era iniziato quasi quaranta anni prima, nel 1850. A firmare la Lei Áurea fu
Dona Isabel, principessa imperiale del Brasile, insieme al ministro dell’Agricoltura
dell’epoca, Rodrigo Augusto da Silva. Era, appunto, 1888. 135 anni fa. Solo 135 anni fa. Il
Brasile, infatti, è stato l’ultimo Paese del continente americano ad abolire la schiavitù.
Una delle principali favelas di Rio de Janeiro è Jacarezinho, nella zona nord della città.
Secondo gli studiosi, non si tratta di una semplice baraccopoli, ma di un vero e proprio
quilombo replicato in area urbana: per quilombo si intende una comunità fondata da
schiavi africani fuggiti dalle piantagioni in cui erano rimasti a lungo prigionieri,
generalmente collocata nelle zone interne del Paese. Questa la spiegazione del termine
nel portoghese brasiliano. Se invece scendente giù in Argentina, armar un quilombo
significa semplicemente fare un gran casino...ogni collegamento non credo sia puramente
casuale...Tornando a Jacarezinho, ha rappresentato il rifugio per molti di quegli schiavi
deportati, diventando in assoluto la favela con la più alta concentrazione di afro-americani.
Un territorio fortemente collegato alla figura di Getulio Vargas, visto che si trattava di
un’area di proprietà della sua famiglia. Vargas fu il leader della rivoluzione brasiliana del
1930, che pose fine alla Prima Repubblica: all’epoca presidente dello stato del Rio Grande
do Sul, fu sconfitto alle presidenziali da Julio Prestes e guidò l’insurrezione in seguito
all’assassinio di Joao Pessoa, il suo candidato vicepresidente.
9/25/2023 • 45 minutes, 18 seconds
Gigi BUFFON ||| La storia del PORTIERE più FORTE di sempre
Guardate questo fermo immagine. Risale all'8 marzo 1998, è un Parma-Inter di campionato. Il pallone, lo vedete, è in possesso del Parma: un difensore, Roberto Mussi, lo sta portando fuori dall'area. Qualche metro indietro si riconoscono Cannavaro e Thuram, al limite dell'area piccola individuerete facilmente anche Ronaldo il Fenomeno. Purissima Serie A anni Novanta, la migliore di sempre. Ma... non c'è il portiere! Dov'è il portiere? Dov'è Buffon, e perché la porta del Parma è clamorosamente vuota nonostante il pallone sia ancora in gioco, all'interno dell'area di rigore? Se avrete qualche minuto di pazienza ve lo diremo, e vi spiegheremo perché questa è una delle immagini più simboliche della carriera di Gigi Buffon – un'immagine in cui lui letteralmente NON C'E' – e riassume il valore e la diversità di uno dei più grandi portieri di tutti i tempi.
Ora guardate questa seconda immagine: questa la riconoscete, no? La parata più gloriosa della carriera di Buffon – forse non la più bella, ma sicuramente la più gloriosa – nasconde un segreto tecnico. Guardate le gambe: al momento dell'impatto tra il pallone e la mano destra di Buffon, le gambe sono ancora perpendicolari al terreno, quasi verticali. È lo stesso gesto tecnico che ritroviamo in tanti altri momenti della sua carriera, sia prima che dopo, per esempio in questa parata molto simile ma molto meno famosa contro il Widzew Lodz, agosto 1997, esordio assoluto in Champions League, quando Gigi non aveva nemmeno vent'anni. Oppure in questa parata su Luis Suarez, in Barcellona-Juventus del settembre 2017, quando Buffon aveva già 39 anni. Lo stile della parata su Zidane, poi replicato così tante volte, risponde in parte a una delle grandi domande sulla carriera di Buffon: come ha fatto a durare così tanto? 1175 partite in carriera, 657 in Serie A, 176 partite in Nazionale: non possono essere stati solamente gesti di cortesia dei vari presidenti. No, oltre a un talento smisurato che era evidente a tutti fin dalla sua prima appar izione, dev'esserci anche un sistema per rimandare il declino fino a dopo i quarant'anni.
9/18/2023 • 30 minutes, 30 seconds
Carlo MAZZONE ||| La storia di un allenatore LEGGENDARIO
Il calciatore più anziano mai schierato in Serie A da Carlo Mazzone si chiamava Renato Campanini, giocava nell'Ascoli ed era nato nel 1938. Il più giovane si chiamava Luca Tedeschi, giocava nel Bologna ed era nato nel 1987. Non sono giocatori famosi, ma il punto è un altro: tra loro due ci sono 49 anni, quasi mezzo secolo di storia d'Italia, una guerra mondiale, un referendum per passare dalla Monarchia alla Repubblica, un boom economico, svariate crisi economiche ed energetiche, otto Presidenti della Repubblica, due Re, sei Papi. Mazzone ha allenato l'Italia, l'ha letteralmente vista crescere, e non parliamo solo di Totti, Baggio, Antognoni ma di centinaia di... fuoriclasse, ottimi giocatori, brillanti promesse, promesse mancate, meteore, delusioni. Per 792 partite di Serie A, più tre spareggi salvezza, più due spareggi UEFA. Ha debuttato in Serie A nel 1974 quando nella tv c'erano solo due canali, il Primo e il Secondo, ed è tornato negli spogliatoi per l'ultima volta nel 2006, quando dall'altra parte del pianeta qualcuno era già riuscito a collegare il mondo intero con un'unica grande rete. Dalle dirette di Tutto il Calcio Minuto per Minuto, ma solo i secondi tempi, all'invadenza dei social dove alla fine era sbarcato anche lui, al giro di boa degli 80 anni, con l'aiuto del nipote Alessio che gli gestiva gli account. Mazzone è romanzo popolare, romanzo familiare, autobiografia positiva di una Nazione che è sempre pronta a bersagliare con l'invidia e la cattiveria i suoi figli migliori, ma in cinquant'anni su Mazzone non ha mai avuto niente da dire. C'è soprattutto l'etica del lavoro, la passione per il lavoro, qualunque esso sia: umile o aristocratico, di fatica o di concetto. Da bambino Carletto Mazzone aiutava suo padre nell'officina di Trastevere, da uomo ha solcato i mari della Serie A per ventotto stagioni senza mai far pesare il proprio status, senza mai dire "il mio calcio", senza mai voler essere didascalico. Ogni tanto con orgoglio ha rivendicato le proprie conquiste, i propri titoli: nessuno scudetto e nemmeno nessuna coppa europea, al massimo una semifinale di Coppa UEFA con il Bologna, per quanto clamorosa, rigenerando un campione come Beppe Signori e spremendo il massimo da gente come Jonathan Binotto e Amedeo Mangone. Nessun trofeo, a parte una Coppa Italia vinta da allenatore-ombra della Fiorentina nel 1975, ma qualcosa forse di più sottile e profondo. La certezza riconosciuta, universale, di essere un uomo perbene.
8/31/2023 • 26 minutes, 58 seconds
Silvio BERLUSCONI in 21 storie ||| Il presidente più VINCENTE di sempre
Silvio BERLUSCONI in 21 storie ||| Il presidente più VINCENTE di sempre
AL DIAVOLO!
Formalmente, Silvio Berlusconi è stato presidente del Milan dal 10 febbraio 1986 al 13 aprile 2017. 31 anni e 29 trofei, tra cui 8 scudetti, 5 Champions League, 2 Coppe Intercontinentali e un Mondiale per Club. Ma scendendo più in profondità, la sua epoca splende e passa alla storia soprattutto per quello che ha fatto in prima persona fino alla primavera 1994, fino a quando l'impegno politico non lo ha costretto a delegare la parte sportiva del suo impero, sempre di più, ad Adriano Galliani. Fino ad allora, non c'era filo d'erba di Milanello che si muovesse senza il consenso di Berlusconi: un uomo che, comunque la pensiate, ha cambiato radicalmente il mercato, la comunicazione, la tattica, il formato delle competizioni, persino le regole del gioco del calcio. A volte ha esagerato, altre volte ha speso troppo e non è stato un bell'esempio, altre ancora è stato cattivo maestro di veri e propri avventurieri che, non essendo ricchi e potenti quanto lui, con il pallone si sono rovinati, e hanno rovinato altre società. Ma una cosa è certa: sul calcio di oggi Berlusconi ha lasciato un'impronta profonda e incancellabile quanto quella di Buzz Aldrin sul suolo lunare. E alla fine è proprio così: ci piaccia o no, ci sia piaciuto o no, Silvio Berlusconi è stato il nostro “man on the moon”.
Succede tutto nel giro di poche settimane: l'Associazione Calcio Milan è sull'orlo del baratro. A dicembre il presidente Giussy Farina ha annunciato le dimissioni e il motivo si scopre due settimane dopo: il vicepresidente Gianni Nardi, un imprenditore milanese a cui Farina deve sette miliardi di lire, ha presentato richiesta di sequestro delle azioni di Farina che costituiscono il 51% del Milan. Si apre la crisi e si scoperchia il pentolone: i giocatori non ricevono da mesi lo stipendio, l’Irpef non pagata supera i tre miliardi di lire, alcuni club battono cassa, ad esempio il Portsmouth non ha ancora ricevuto il pagamento della terza rata di Hateley. Farina scappa in Namibia, sulle rive del fiume Okavango, dove non esiste l'estradizione per reati fiscali; la gestione del Milan passa a Nardi. Il petroliere Dino Armani sembra a un passo dal rilevare la società e ha già annunciato il suo metodo per risanare i conti: vendiamo Baresi alla Sampdoria e Maldini alla Juventus. Sabato 8 febbraio il Cavaliere convoca il suo gabinetto di guerra a Villa Suvretta, un sontuoso palazzone di pietra grigia a Sankt Moritz, che gli è stato affittato dallo scià di Persia per 436 milioni all’anno. Per evitare di rimanere impantanato nella burocrazia e nei ricorsi, bisogna forzare la mano, magari anche minacciare di fare un passo indietro. Il 9 febbraio, in Milan-Sampdoria, il popolo di San Siro insorge con striscioni molto espliciti: “Silvio, cancella questa società di ladri”. Anche Nardi “tifa” per Berlusconi: prende tempo con Armani e la sera del 10 febbraio chiude la trattativa con il Cavaliere. Vanno tutti a festeggiare alla Risacca, un ristorante in via Marcona a un passo da piazza Cinque Giornate, fino alle due e mezza del mattino. A quell’ora già sono aperte le prime edicole: l’allegra combriccola si trascina fino in Porta Venezia, in cerca della storica prima pagina della Gazzetta. Foto di repertorio del Cavaliere con un bicchiere in mano, e accanto il titolo: “Berlusconi annuncia: sì, il Milan l'ho preso io”.
7/5/2023 • 37 minutes, 31 seconds
La storia di KVARATSKHELIA ||| Alla scoperta di un FENOMENO
La storia di KVARATSKHELIA ||| Alla scoperta di un FENOMENO
Prendete uno di quei romanzi russi da duemila pagine, tipo Guerra e Pace, Lev Tolstoj, 1869: poemi di stampo omerico, che travalicano le epoche. Di quelli che poi diventano anche film, tre ore e 19 minuti, con Vittorio Gassman, Audrey Hepburn, Henry Fonda, regia di King Vidor, un Oscar come miglior film straniero più altre quattro nomination. Sono ancora possibili storie così? Sono ancora credibili storie così? Forse solo nel calcio, l'ultima forma di intrattenimento del Novecento che ancora resiste all'usura del tempo. E non è facile nemmeno nel calcio di oggi, dove tutto è conosciuto, tutto è parametrato, tutto è scoutizzato, niente è lasciato al caso, niente più rimane ignoto. Quasi niente. Qualcuno ogni tanto sfugge ai radar. Però bisogna andare a pescarlo in Russia, e passare attraverso una crisi economica, una crisi sportiva, parecchi cambi di allenatore, una pandemia mondiale, purtroppo anche una guerra. Ma se ce la fai, se riesci a districarti con lo stile di una spia nella Vienna degli anni Quaranta e uscire vincitore da questo labirinto di passaporti, tornei giovanili, provini e intermediari, poi va a finire che ti porti a casa il miglior giocatore del campionato. E allora buon divertimento con questo piccolo kolossal contemporaneo, anche questo – come Guerra e Pace del 1956 – prodotto... da De Laurentiis.
Il primo cenno all'esistenza di Khvicha Kvaratskhelia sulla stampa occidentale risale all'11 ottobre 2018, quando il Guardian – una delle migliori redazioni sportive d'Europa – pubblica la lista dei migliori 60 giocatori nati nel 2001, che quel giorno hanno tutti 17 anni. Come sempre, ci sono futuri campioni, per esempio Rodrygo del Real Madrid, Eric Garcia del Barcellona, oppure il nostro Nicolò Fagioli, ma anche qualche giocatore che non è ancora esploso, tipo l'olandese Daishawn Redan, giovanili di Ajax e Chelsea, che ha concluso la stagione 2022-23 al Venezia. E poi c'è Khvicha Kvaratskhelia, che gioca nel Rustavi, una squadra che si barcamena a metà classifica del campionato georgiano dopo che l'anno prima era stata promossa in prima divisione. Leggiamo: “Conosciuta in passato per ottimi giocatori offensivi, da tanto tempo la Georgia non sforna più talenti di grosso calibro. Kvaratskhelia, tuttavia, sembra avere tutte le carte in regola per essere per tanti anni il miglior calciatore georgiano. Tecnicamente è molto dotato, come tanti giovani georgiani, ma spicca anche per altre caratteristiche. Prodotto del vivaio della Dinamo Tbilisi, è forte fisicamente, ha un'ottima accelerazione ed è sempre imprevedibile nell'uno contro uno. Cosa molto importante, è capace di usare entrambi i piedi. Non è ancora stato paragonato a nessun calciatore famoso del passato, ma se guardiamo all'estero vengono in mentre tre nomi: Julian Draxler, Julian Brandt, e Leroy Sané. Kvaratskhelia ha esordito da professionista a 16 anni, ha segnato tre gol e ne ha segnato uno per l'Under 17 della Georgia nelle qualificazioni a Euro 2018. Ha già attirato l'interesse del Bayern Monaco, della Lokomotiv Mosca e di alcuni club di Serie A”.
6/19/2023 • 19 minutes, 54 seconds
Dalla Serie C allo Scudetto ||| Il Napoli di De Laurentiis ft. @willmedia
Cronache di spogliatoio e Will Media per la prima volta insieme vi raccontano il Napoli di De Laurentiis in un'intervista di Francesco Oggiano al nostro Giuseppe Pastore.
5/4/2023 • 29 minutes, 57 seconds
EURODERBY 2003 ||| I sei giorni che paralizzarono Milano
Venerdì 21 marzo 2003 a Milano è il primo giorno di primavera, come in qualunque altra parte dell'emisfero boreale. 24 ore prima gli Stati Uniti di George W. Bush hanno ufficialmente dato via alle procedure d'invasione dell'Iraq, appoggiata anche dall'Italia, e tutte le città d'Europa hanno risposto con mobilitazioni di massa contro la guerra. Anche a Milano: scioperi, una veglia notturna sul sagrato del Duomo, un corteo di almeno 50mila persone da largo Cairoli fino in Duomo. All'Ospedale Sacco un uomo di rientro dal Vietnam è stato ricoverato per motivi precauzionali: manifesta tutti i sintomi della SARS, la nuova epidemia esplosa a novembre nel Sud-Est Asiatico. Il caldo tarda ad arrivare: minima di 2 gradi, massima di 16, cielo sereno con qualche nuvola nel pomeriggio. Ma intorno a mezzogiorno la temperatura emotiva della città schizza alle stelle: a Nyon c'è il sorteggio del tabellone della fase a eliminazione diretta della Champions League. Il Milan ha una sola possibilità su tre di evitare un derby italiano: beccherà sicuramente una tra Inter, Juventus e Ajax. E invece, per dirla con le parole di Adriano Galliani, succede un miracolo.
Un mese dopo, le italiane fanno tutte e tre il loro dovere. Martedì 22 aprile, l'Inter elimina il Valencia dopo 90 minuti di resistenza commovente e un Toldo da 9 in pagella; la Juventus sbanca il Camp Nou con un gol nei tempi supplementari del Panterone Zalayeta. E quando la sera dopo, al 90' appena scoccato, una combinazione Inzaghi-Tomasson manda il Milan in paradiso, il cantore rossonero Carlo Pellegatti non riesce a trattenersi e pronuncia in diretta una frase che potrebbe urlare solo un pazzo, oppure un uomo incredibilmente ottimista.
“Siamo in finale!”. Il Milan già sapeva che nell'eventuale semifinale avrebbe affrontato l'Inter... e Pellegatti urla “siamo in finale”. Ma se pensate che in quei giorni tutta Milano, sia la parte rossonera che nerazzurra, proclami spavalda la propria superiorità cittadina, sappiate che siete lontanissimi dalla verità. Come!, diranno i non milanesi, “la città più razionale, ottimista, sbruffona d'Italia, anche lei vittima di queste sciocche scaramanzie”. Tutto vero, tutto nero. Per dirla alla Billy Costacurta, “inizia la settimana peggiore della vita calcistica di Milano”. Immaginiamola come un lungo e angosciante thriller, con i giorni scanditi da scritte bianche su sfondo nero, come in Shining.
4/21/2023 • 36 minutes, 15 seconds
Quando TRE ITALIANE arrivarono in FINALE nelle COPPE europee ||| 19 aprile 1989
Nella storia della musica sono poche le date che hanno l'onore di essere diventate il titolo di una canzone: in Italia la più famosa è “4 marzo '43” di Lucio Dalla, oppure nel resto del mondo c'è anche “8 aprile '82” di Beck. Sono ancora meno le date che hanno addirittura dato il titolo a un intero disco: tra queste c'è l'undicesimo album di Francesco De Gregori, che s'intitola “Miramare 19 aprile 1989”, come l'inizio di una lettera, di una cartolina o un articolo di giornale.
È un album pieno di inquietudine verso il presente, che usa toni aspri per parlare di cronaca, di inquinamento, di traffico di organi, di aborto. Un disco anche piuttosto amaro, volutamente poco sintonizzato sul mood ottimista, tendente all'euforia, del decennio che sta finendo in bellezza per il nostro Paese. La data prescelta da De Gregori è anche per coincidenza una data storica per il calcio italiano: 19 aprile 1989, quando per la prima volta portiamo una squadra in finale in ognuna delle tre Coppe Europee: la Coppa delle Coppe, la Coppa UEFA, la Coppa dei Campioni.
A beneficio dei più giovani bisogna ricordare com'erano organizzate negli anni Ottanta le tipiche settimane di Coppa: tutte le partite al mercoledì, chi prima chi dopo, di pomeriggio, in prima serata o in differita notturna. Con mille variabili: il segnale via satellite, i diritti televisivi che non erano collettivi come oggi ma gestiti da ogni squadra di ogni Paese, eventuali scioperi dei giornalisti o degli operatori radio-televisivi. Oggi c'è l'UEFA che fa in modo di non sovrapporre due partite importanti, o perlomeno ci sono le tv che hanno pronto il canale Diretta Gol per consentirci di seguire un po' tutto. Ma negli anni Ottanta, niente di tutto questo.
Eccovi il palinsesto televisivo di mercoledì 19 aprile 1989:
ore 15:30, Rai2, Sampdoria-Malines, telecronaca di Ennio Vitanza
ore 20:15, Rai 3, Bayern Monaco-Napoli, telecronaca di Giorgio Martino
ore 20:30, Rai1, Milan-Real Madrid, telecronaca di Bruno Pizzul
Poi, per i più affamati, Sredets Sofia-Barcellona, seconda semifinale di Coppa delle Coppe, alle 18:30 su Capodistria, dove alle 22:45 andrà in onda in differita anche Dinamo Dresda-Stoccarda, seconda semifinale di Coppa UEFA.
E forse a questo punto avrete notato la totale assenza di squadre inglesi, e c'è un motivo: dopo il disastro dell'Heysel, 29 maggio 1985, l'UEFA le ha squalificate in blocco dalle Coppe per cinque anni. Un provvedimento severissimo per debellare la piaga degli hooligans, che il governo di Londra sta recependo con grande fatica: quattro giorni prima a Sheffield, il 15 aprile 1989, a margine della semifinale di FA Cup tra Liverpool e Nottingham Forest, sono rimasti sul prato di Hillsborough i corpi senza vita di 97 tifosi Reds. Anche se in questo caso gli hooligans c'entrano ben poco: le responsabilità sono tutte della polizia di Sheffield, oltre che di stadi antiquati, scomodi e molto pericolosi, che nel giro di dieci anni in Inghilterra verranno tutti messi in sicurezza.
Il mercoledì di Coppa, con le semifinali di ritorno di tutte e tre le Coppe, arriva anche per dimenticare la tristezza di un weekend tragico che rappresenterà un punto di non ritorno nel rapporto tra il calcio e l'Inghilterra. E adesso, possiamo cominciare.
3/22/2023 • 25 minutes, 53 seconds
“NON vedrete più UNA COSA simile” ||| Il DRAMMATICO FINALE di Man City-QPR 3-2
“Dramatic”. In inglese questa parola non ha solamente il significato letterale che ha in italiano: e cioè drammatico, angosciante, straziante, strappalacrime. Può voler dire anche “spettacolare”, avvincente, sorprendente, pieno di colpi di scena. Qualcosa di “dramatic” può anche avere un lieto fine. “Dramatic” vuol dire soprattutto una storia scritta bene, con una sceneggiatura favolosa, di quelle che sorpassano a destra i migliori copioni di Hollywood. Bene, le cose che successero a Manchester il 13 maggio 2012 furono subito riconosciute da tutto il mondo come “the most dramatic end of any Premier League season”.
Il finale più drammatico / Manchester City – QPR
Ultima giornata di Premier League, bagarre totale sia per il primo posto che per il terzultimo. In testa alla classifica, a 86 punti, Manchester City e Manchester United. Il City ha una migliore differenza reti: gli basterà vincere per diventare campione d'Inghilterra, per la prima volta dopo 44 anni. Forse una volata così serrata non c'era mai stata, nella storia della Premier League. I Citizen sono quelli che Alex Ferguson con una certa spocchia ha chiamato nel 2009 “the noisy neighbours”, “i vicini rumorosi”. La conoscete la storia? Nell'estate 2009 Carlitos Tevez era passato dal Manchester United al Manchester City, uno dei primi grandi colpi della nuova proprietà che fa capo al principe di Abu Dhabi Mansour Bin Zayed. Manchester è un po' come Torino, dove la Juventus è certamente la squadra più blasonata, ma i tifosi granata rivendicano la superiorità in materia di tifo. E a quel punto David Pullan, il capo del marketing del City, era riuscito a convincere i nuovi dirigenti a mettere un po' di pepe nella sonnacchiosa rivalità cittadina, a senso unico da oltre trent'anni. Così, insistendo a lungo, aveva ottenuto l'autorizzazione per confezionare un poster con i colori del City, la foto di Tevez esultante e una scritta inequivocabile: “Welcome to Manchester”. E la frase stizzita di Ferguson dimostrò che Pullan aveva fatto centro.
Beh, il calcio fa giri molto strani, se è vero che nel 2012 a gennaio Tevez è stato a un passo dal lasciare il City per trasferirsi al Milan: l'operazione era già conclusa, grazie al trasferimento di Pato al Paris Saint Germain che avrebbe lasciato spazio a Tevez, ma poi il brasiliano si era messo di traverso – e soprattutto la sua fidanzata Barbara Berlusconi, che aveva convinto suo padre a trattenere il Papero, per il dispiacere di Adriano Galliani che aveva visto andare in fumo la sua operazione-capolavoro. Così il 13 maggio 2012, dopo essere stato fuori rosa fino a primavera, Tevez parte titolare accanto all'altro argentino, Sergio Agüero, chiamato El Kun fin da bambino per la somiglianza con un cartone animato giapponese, “Kum Kum il cavernicolo”. È arrivato nell'estate 2011 dall'Atletico Madrid e gli inglesi ci hanno messo qualche mese per imparare la corretta pronuncia del cognome: non “a-ghe-ro” ma “a-gue-ro”, come indicano quei due puntini sulla U. Non è soltanto un segno fonetico tedesco: i puntini sulla U esistono anche in spagnolo, si chiamano “dieresis” e compaiono anche su alcuni nomi comuni, per esempio “pingüino”.
“Dramatic” è anche la corsa per non retrocedere, ridotta ormai a due squadre: il Bolton e il Queen's Park Rangers.
3/3/2023 • 19 minutes, 36 seconds
La storia di GIGI LENTINI ||| Il campione INCOMPIUTO
«Potevo essere molto di più, anche se ormai ci penso poco. Del calcio mi piaceva solo il campo, tutto il resto no. Sono sempre stato un ragazzo tranquillo, non una testa di cazzo: chi mi conosce, lo sa»
Di quanti talenti ci siamo chiesti: «Come sarebbe andata se avesse fatto una scelta invece di un’altra?». Questa è una di quelle storie. Ma è anche la storia di come un determinato modo di raccontare il calcio e i suoi protagonisti possa finire per creare una visione distorta, una narrazione facile ma lontana dalla realtà. Per troppo tempo, si è cercato di ricamare storie sul suo modo di vivere. I capelli lunghi, l’orecchino in vista, le automobili di lusso. Gianluigi Lentini voleva soltanto giocare a calcio. E lo faceva splendidamente, forte di un fisico bestiale e di una padronanza tecnica innata. Chi l’ha detestato, confondendo la sua riservatezza per spocchia, vi dirà che ha fatto troppo poco per meritare di essere ricordato. Chi lo ha amato, invece, vi spiegherà che quel poco è stato più che sufficiente per vedere all’inizio degli anni Novanta un calciatore avanti dieci anni.
Gigi Lentini nasce a Carmagnola nel marzo del 1969, ma soltanto perché lì c’è l’ospedale. Cresce infatti a Villastellone, un quarto d’ora più a nord, purissima campagna torinese: il sole che d’estate cuoce i tetti delle case e che d’inverno, invece, si vede meno. Il pallone diventa subito un passatempo che domina le sue giornate e a dieci anni è già nel vivaio del Torino, che in quegli anni non è solo un serbatoio per la prima squadra, ma per tutto il calcio italiano. Sergio Vatta, allenatore della Primavera e maestro di calcio giovanile, era entrato in società in pianta stabile due anni prima: merito anche di un’imbeccata che non era stata assecondata da Gigi Radice. Nel 1975, quando allenava l’Ivrea e per un giorno a settimana faceva l’osservatore per i granata, era stato portato a Lione da Giacinto Ellena, responsabile del vivaio del Toro, per andare a vedere il ventenne Michel Platini, all’epoca stellina del Nancy. Erano anni in cui il mercato estero, per i club italiani, era inaccessibile per regolamento: le frontiere erano ancora chiuse dopo il fallimento mondiale del 1966. Vatta rimase stregato da Platini, facendo presente al club che si poteva opzionare con cento milioni, ma alla fine non se ne fece nulla.
Ma torniamo a Lentini, alla sua crescita nel settore giovanile. Vatta lo vede per la prima volta durante una partita degli allievi, a Mathi Canavese. È un colpo di fulmine. Osserva questo corpo che sembra uscito dalle mani di Canova fare su e gi ù sulla fascia, apparentemente senza fatica. C’è da lavorare, ovviamente, perché Lentini si piace un po’ troppo e il luogo comune del dribblomane fumoso è dietro l’angolo. Ma Vatta ha già capito che quella materia prima è fin troppo semplice da plasmare e da rendere un giocatore di altissimo livello.
«In pochi hanno fatto la differenza come lui nelle giovanili. La maglia numero 7 finiva sempre stracciata. Una volta fece quattro gol alla Samp, nell’ultimo scartò mezza squadra, si fermò sulla linea di porta, aspettò il portiere e segnò. Eravamo al Fila, il portiere era Pagliuca che lo inseguì per tutto il campo». (Sergio Vatta)
Si guadagna in fretta la chiamata delle nazionali giovanili, gli esperti di cose granata lo devono tenere d’occhio già nella stagione 1986-87, quando inizia a trovare un po’ di spazio in prima squadra agli ordini di Radice e vince il Viareggio in Primavera, insieme all’amico Diego Fuser. Giocare con il numero 7 nel Torino non è come farlo in altre squadre. La mistica che si porta dietro una maglia che fu di Gigi Meroni e di Claudio Sala non sembra però turbarlo più di tanto. Il calcio di Lentini è istintivo, spensierato. Per certi versi, anche un po’ arrogante. In due stagioni mette insieme poche presenze da titolare e tanti spezzoni. L’obiettivo della società è verificarne la tenuta su una stagione intera e così, nell’estate del 1988, viene mandato ad Ancona, in Serie B.
2/22/2023 • 31 minutes, 2 seconds
La SCONFITTA più BELLA nella storia dell’Inter ||| L’IMPRESA al Camp Nou
Tutti quelli che passavano da Barcellona almeno per un weekend tra il 2009 e il 2012 difficilmente riuscivano a resistere alla tentazione di dare quantomeno un'occhiata al più grande spettacolo del mondo. Un calcio ipnotico e visionario, la miglior orchestra mai assembleata dai tempi del Milan di Sacchi al servizio di un direttore di furibonda genialità, ma anche uno spettacolo costoso, esclusivo, globale nel senso più puro del termine, con migliaia di spettatori americani, indiani, giapponesi che si mischiavano ai tifosi locali, disposti a spendere qualunque cifra per 90 minuti di Messi e compagni. Nelle notti più torride era tutto esaurito anche il quarto anello del Camp Nou, da cui – notoriamente – non si vede niente, il calcio sembra virtuale e i giocatori sembrano dei pixel indefinibili come in un vecchio videogame. Quest'ingranaggio apparentemente perfetto, che coniugava risultati e stile – il Barça con le magliette sponsorizzate Unicef, su cui Mourinho avrebbe ironizzato un anno dopo – questa macchina infernale che macinava titoli spagnoli e internazionali, che aveva vinto una Champions League nel 2009 e un'altra ne avrebbe vinta nel 2011, fu sabotato il 28 aprile 2010. In dieci, nel Duemila-Dieci, a difesa di un risultato che, privato del trattino, diventa anch'esso un Dieci. 10 cartoline da Barcellona, la più bella sconfitta della storia dell'Inter.Era considerato dormiente dal 1821, ma intorno alla mezzanotte del 20 marzo 2010 il vulcano islandese Eyjafjöll, punta di diamante del ghiacciaio Eyjafjallajökull (eiafiatlaiòcutl ), ha la bella idea di risvegliarsi ed eruttare. È l'ultimo sabato sera invernale: l'Inter ha rallentato a Palermo, 1-1, gol di Milito e pareggio di Cavani, ed è andata a dormire con un filo di preoccupazione perché il Milan di Leonardo, il giorno dopo, battendo il Napoli in casa potrebbe operare il sorpasso in vetta alla classifica – ma non ci riuscirà. Per un mese il vulcano islandese rimane un accidente trascurabile e non trova spazio sui giornali fino a metà aprile, quando un'altra grossa eruzione crea un'enorme nube di ceneri vulcaniche che appesta i cieli di tutto il continente e causa disagi, ritardi e cancellazioni in tutti gli aeroporti d'Europa. Così il Barcellona arriva a Milano dopo 15 ore di viaggio in pullman stile gita scolastica, con unica tappa a Cannes: un pullman extra lusso, naturalmente – qui vedete Puyol che prova a rassicurare i tifosi postando su Twitter le foto degli interni.Ma la sfacchinata lascia alcune scorie nelle gambe dell'ultrastressato Barça, che dopo il gol di Pedro cade con tutte le scarpe nella strategia approntata da Mourinho: difendere bassissimi e ripartire, fino a pungere tre volte con Sneijder, Maicon e Milito. Anche su Inter-Barcellona 3-1 si potrebbe parlare per giorni interi e solo lo show finale di Balotelli meriterebbe una parentesi di mezz'ora. Ad ogni modo, nonostante i due gol di scarto, il Barça è ancora sinceramente convinto che si sia trattato di un episodio isolato e irripetibile, anche se Iniesta è infortunato e salterà anche il ritorno, anche se i cinque cartellini gialli – tra cui quello di Puyol, diffidato e squalificato – dovrebbero allarmare un po' Guardiola sulla delicatezza anche psicologica del doppio confronto. Del resto, il punteggio che serve l'hanno già ottenuto a novembre, nel girone, un Barcellona-Inter in cui il 2-0 finale stava fin troppo stretto al Barça, perdipiù senza Leo Messi. Niente, la parola è solo una, recitata come un mantra, agitata come un grido di battaglia: “remuntada”. “Io ho raccomandato ai miei giocatori di inseguire un sogno, mentre invece per il Barcellona è un'ossessione. Il sogno è più puro dell'ossessione. Per il Barcellona raggiungere la finale di Parigi nel 2006 e Roma nel 2009 è stato un sogno, ma arrivare alla sfida decisiva al Santiago Bernabeu, nella tana del Real Madrid, è un'ossessione. Li capisco: lo sarebbe anche per noi se andassimo a giocarci la Champions a Torino".
(José Mourinho, c
2/15/2023 • 23 minutes, 21 seconds
La leggenda di LEV YASHIN ||| L’UNICO portiere PALLONE D’ORO
Nella cultura occidentale il portiere è sempre stato un uomo solo. A volte maledetto – pensate a
Moacir Barbosa, passato alla storia come l'unico responsabile del Maracanazo – a volte pittoresco, estroso, fuori dagli schemi. “Per fare il portiere bisogna essere un po' matti”, si dice, o quantomeno non soffrire troppo il peso della solitudine. C'è anche una poesia di Umberto Saba, si intitola “Goal”, la descrizione di un gol dal punto di vista dei due portieri: quello che l'ha subito è disperato, distrutto, “contro terra cela la faccia a non vedere l'amara luce”. L'altro esulta sì, ma da lontano, cerca invano di imbucarsi alla festa degli altri: “La sua gioia si fa una capriola/si fa baci che manda di lontano/della festa – egli dice – anch'io son parte”. In Russia, invece, è tutto diverso: in Russia il portiere è un eroe nazionale, letteralmente “l'estremo difensore”, il capitano morale, l'esempio da portare ai bambini.
Ladifesa della porta si sovrappone alla difesa della Patria: sarà retorico?, sì, lo è, ma ovunque il calcio è retorica, spirito di squadra, senso di appartenenza. Se da noi il portiere è un escluso, in Russia il portiere include tutti gli altri, tutto il popolo. C'è un articolo del 2006 del Guardian, scritto dal grande Jonathan Wilson, che s'intitola: “Perché tutti i russi vogliono essere portieri?”. La risposta sta in un nome, poi in un secondo nome patronimico, infine in un cognome: Lev Ivanovic Jascin.
Il giovane Lev Jascin abbraccia davvero la vocazione del portiere ben oltre i vent'anni. Fino al 1949
non va oltre la squadra B della Dinamo Mosca. È stato notato da Arkady Chernyshov, allenatore delle giovanili della Dinamo, la squadra del Ministero dell'Interno, dove però tra i pali vige la logica del posto fisso: una delle poche tracce di proprietà privata nell'Unione Sovietica, proprietà di Aleksei Khomich, “la Tigre”. Khomich era il biglietto da visita della prima squadra di calcio sovietica che abbia messo il naso oltre-cortina dopo la guerra: nel novembre del 1945 la Dinamo si è esibita in alcune amichevoli a scopo puramente promozionale in Inghilterra, contro il Chelsea e il Tottenham, e lui ha rubato la scena. Una leggenda vivente. Ti puoi affacciare in campo solo nelle rare volte in cui Khomich è infortunato, o casomai per un'amichevole: come quella contro il Traktor Stalingrado, primavera del 1949, il debutto di Lev Jascin in prima squadra. Un debutto da sogno, un debutto da
incubo: a un certo punto, sul rinvio del portiere avversario, prolungato dal vento, fa per andare in
presa alta ma si scontra con un difensore e la palla finisce in rete, tra le risate generali. Seconda
chance: 2 luglio 1950, derby sentitissimo tra Dinamo e Spartak, Khomich si fa male e dalla panchina l'allenatore Dubinin ordina a Jascin di entrare in campo. I suoi sono avanti 1-0, mancano pochi minuti alla fine, ma arriva un'altra uscita a vuoto. Leggenda vuole che dopo la partita un dirigente della
Dinamo faccia irruzione in spogliatoio con parole piuttosto nette: “Sbattete questo cretino fuori dalla squadra”. Terza chance, quattro giorni dopo, 6 luglio 1950: e questa finalmente la vince, sì, ma la vince 5-4, perché il giovane Jascin ha preso 4 gol dalla Dinamo Tbilisi. Ok ragazzo, gli dice
l'allenatore, sarà per un'altra volta.
Come da manuale del giovane calciatore anni Quaranta e Cinquanta, Lev Jascin ha avuto un'infanzia difficile. Sua madre è morta di tubercolosi quando lui aveva sei anni. Poi, a undici anni, è arrivata la guerra: insieme a suo padre Ivan è stato evacuato da Mosca nell'ottobre 1941, trovando riparo a Ulyanovsk, 900 chilometri più a Est.
12/25/2022 • 29 minutes, 40 seconds
La più GRANDE PARATA della STORIA ||| "La parata del SECOLO" su Pelé
Guadalajara, Messico, 7 giugno 1970. Il responso del termometro, per i giocatori che stanno per
scendere in campo, è devastante. Fanno 38 gradi, non si respira. La partita è stata fissata a
mezzogiorno per questioni di diritti televisivi: anche più di cinquanta anni fa, erano le tv a dettare i
tempi, per consentire di trasmettere il match a un orario interessante per le emittenti europee.
Ok, è soltanto una partita di girone del Mondiale. Ma è quella più attesa. Negli spogliatoi si sente
quel rumore ipnotico dei tacchetti che sbattono a terra. È la favola del calcio che prende vita. Nella
pancia dello stadio si muovono i protagonisti. Pelé, Jairzinho, Carlos Alberto. E poi Bobby Moore,
Hurst, Bobby Charlton. C’è anche il miglior portiere del Mondiale precedente, quello del 1966. Si
chiama Gordon Banks e non vede l’ora di poter affrontare Pelé. Non lo sa ancora, ma sta per
consegnare ai posteri quella che è stata definita, con discreta ragione, la parata del secolo.
THE “BOGOTÀ BRACELET”
L’Inghilterra arriva ai Mondiali del 1970 per difendere il titolo vinto quattro anni prima.
L’entusiasmo della vigilia si spegne di colpo in Colombia, scelta dalla federazione inglese per
preparare fisicamente i giocatori alle sfide imposte dall’altitudine che troveranno in Messico. In un
momento di relax, Bobby Moore e Bobby Charlton entrano nella gioielleria Fuego Verde: devono
comprare un regalo alla moglie di Charlton, ma nulla di quello che gli viene mostrato li convince. I
due, scoraggiati, si accingono a lasciare il negozio. Ed è qui che succede qualcosa di impensabile.
La manager del negozio, tale Clara Padilla, li raggiunge di corsa e li accusa di avere fatto sparire un
braccialetto. C’è molta confusione, i due negano tutto, gli schiamazzi arrivano alle orecchie del
commissario tecnico inglese Ramsey e alla fine Moore e Charlton possono andarsene. Sembra un
fatto di poco conto: la preparazione della squadra prosegue, l’Inghilterra batte la Colombia in
amichevole, poi anche l’Ecuador a Quito, quindi torna a Bogotà per un lungo scalo aereo in attesa
del volo per Città del Messico. Neil Philips, il medico della squadra, peraltro presente all’interno
della gioielleria al momento dei fatti, consiglia inutilmente alla federazione di prenotare un volo
con uno scalo alternativo a Panama: idea bocciata sul nascere. Tutti a Bogotà, dunque.
Staff e calciatori stanno guardando un film quando due agenti colombiani in borghese irrompono
e portano via Bobby Moore, il capitano che nel 1966 aveva ricevuto dalle mani della regina
Elisabetta la Coppa Rimet, arrestandolo per furto. L’arresto in modalità riservata è una gentile
concessione della polizia colombiana dopo un lungo lavoro diplomatico dell’ambasciatore inglese:
gli agenti, inizialmente, avevano pensato di intervenire direttamente davanti ai giornalisti. È
emerso un nuovo testimone, Alvaro Suarez, che giura di avere visto Moore uscire dalla gioielleria
con il braccialetto scomparso. Ramsey, spiazzato dalla situazione, decide di far comunque salire i
giocatori sull’aereo per Città del Messico, comunicando alla squadra dell’arresto una volta in volo.
« Bobby Moore un ladro e Bobby Charlton suo complice? Era come se ci avessero detto
dell’arresto di Madre Teresa per crudeltà su dei bambini».
(Gordon Banks)
Moore non viene portato in carcere ma a casa di Alfonso Senior, il presidente della Federcalcio
colombiana. Arresti domiciliari decisamente particolari, per consentire a Moore di allenarsi in
attesa della ratifica delle accuse. Il giudice Justice (ebbene sì) Peter Dorado chiede a Padilla di
ricostruire la vicenda ma la sua versione non collima più con quella raccolta subito dopo i fatti:
dice di aver visto Moore mettere il braccialetto nella tasca sinistra del suo blazer, ma il blazer di
Moore non ha tasche. Anche il valore del braccialetto si impenna improvvisamente: passa da 500 a
5.000 sterline. Qualcosa non quadra. Il 28 maggio, Moore viene rilasciato per insufficienza di prove, pur dovendo
12/22/2022 • 8 minutes, 35 seconds
La FAVOLA del CAMERUN ||| Italia ‘90
Questa storia inizia dall'Isola della Réunion, in pieno Oceano Indiano: quel che tecnicamente i francesi chiamano DOM (départment d'outre-mer), dipartimento d'oltremare, perché pur trovandosi a 420 chilometri a Est del Madagascar è territorio francese e risponde alle leggi e agli statuti della Repubblica Francese. Qui è ambientato uno dei film meno riusciti di François Truffaut, “La mia droga si chiama Julie”, con Jean-Paul Belmondo e Catherine Deneuve. Qui sta letteralmente svernando quello che è probabilmente il più grande calciatore africano degli anni 80: Roger Milla, 38 anni, l'unico giocatore della Jeunesse Sportive Saint-Pierroise, squadra di terza categoria francese, a percepire un regolare stipendio. Ha un grande avvenire dietro le spalle che risale per esempio al 1981, quando aveva vinto la Coppa di Francia con il Bastia, segnando un gol in finale contro il Saint Etienne di Platini. Nel 1989 Milla ha preso un solo voto al Pallone d'Oro. Sì, ma il Pallone d'Oro africano! Per la cronaca, ha vinto un giovane attaccante liberiano del Monaco, un certo George Weah. E Milla è arrivato cinquantesimo, a pari merito con tutta una serie di sconosciuti di cui oggi non si trova traccia nemmeno su Wikipedia: Amegassé, Makinka, Mutumbile, Rasoanaivo, Wachironga...
Quest'anno ha preso un voto: l'unico a votarlo è stato il corrispondente dell'Herald di Harare, principale quotidiano dello Zimbabwe, ma si è trattato più che altro di un atto di fede. Il Pallone d'Oro Africano lui l'aveva già vinto, sì, ma nel 1976, tredici anni prima, quando giocava con il Tonnerré Yaoundé. Ha pure chiuso con la Nazionale, per una questione personale: mentre stava giocando un'amichevole contro l'Arabia Saudita, sua madre è morta. Il Ministro dello Sport gli aveva promesso che l'avrebbero ricoverata, ma non l'aveva fatto. E allora, per onorare la sua memoria, è diventato la versione black di Achille nel primo libro dell'Iliade: si è ritirato sdegnato nel suo accampamento, alla Réunion, e ai Mondiali andateci voi. Senza di lui, il Camerun ha fatto una figura magrissima alla Coppa d'Africa 1990: eliminata ai gironi da campione uscente da Zambia e Senegal, un disastro.
A Italia 90 il Camerun è finito in un girone durissimo: i campioni del mondo dell'Argentina, i vice-campioni d'Europa dell'Unione Sovietica, e la Romania che è imperniata sul blocco della Steaua Bucarest finalista di Coppa Campioni nell'89. Così, a due mesi dalla partenza per l'Italia, tocca intervenire al presidente della Repubblica in persona: Paul Biya. In realtà la gran parte dell'opinione pubblica e della stampa sportiva non sono entusiasti dell'idea di supplicare in ginocchio Milla, però Biya è uno che sa fiutare l'aria: gode di un certo seguito nel Paese, tanto che alle elezioni del 1988 è stato rieletto con il 98,75% dei voti – anche se, secondo qualche maligno, ha pesato il fatto che fosse l'unico candidato. Flashforward: a febbraio Paul Biya compirà 90 anni ed è TUTTORA il presidente della Repubblica. Così scavalca l'opinione del ct, che farebbe a meno pure lui di richiamare Milla, e sguinzaglia il suo ministro dello Sport, Joseph Fofé – quello che due anni prima non aveva mantenuto la promessa – e lo costringe a umiliarsi al cospetto di Milla. E lui, come Cincinnato, accetta di riprendere le armi e ballare la sua Last Dance con tutti gli altri Lions Indomptables, i Leoni Indomabili. In quel momento il Camerun detiene un curioso record di cui va molto fiero: è l'unica Nazionale della Terra a non aver mai perso nemmeno una partita ai Mondiali. C'è stato solo una volta, nell'82, ed è tornato a casa dopo tre pareggi contro Perù, Polonia e Italia, con qualche sospetto di combine che è stato sempre sdegnosamente negato sia da noi che da loro.
12/20/2022 • 29 minutes, 12 seconds
Alan SHEARER al GENOA ||| Lo SCHERZO più crudele di sempre
Da una parte una tifoseria in subbuglio, dall’altra una pioggia di smentite. In un giorno di giugno del 2004, con il mercato teoricamente ancora sonnecchiante, a svegliare tutti dal torpore ci pensa Il Secolo XIX, lo storico quotidiano di Genova. La notizia è di quelle in grado di scuotere il calciomercato nazionale anche se riguarda una squadra che in quel momento milita in Serie B: il Genoa, che nella stagione precedente ha chiuso al quindicesimo posto nel campionato cadetto in quello che era stato il primo anno di presidenza di Enrico Preziosi, è pronto ad annunciare l’arrivo di Alan Shearer, prossimo ai 34 anni, ma pur sempre reduce da una stagione da 22 gol in Premier League, secondo nella classifica dei marcatori del campionato inglese soltanto a una stella internazionale come Thierry Henry. Ma com’è possibile?
Enrico Preziosi è un personaggio picaresco, un uomo che a 30 anni aveva fondato, nel garage di casa, la Giochi Preziosi, ottenendo un successo smisurato fino a mettersi in società con Silvio Berlusconi. Quella nel Genoa è la sua terza avventura nel mondo del calcio: anzi, la quarta, se si considera il ruolo di azionista di minoranza nella Carrarese. Arriva soprattutto dalle due esperienze al Saronno e al Como, lasciato con un addio a dir poco tumultuoso dopo averlo riportato in Serie A per mettere le mani sul Grifone appena retrocesso in Serie C1 e, nel giro di qualche mese, tornato in B grazie allo scossone provocato dal caso Catania. Ora immaginatevelo stanco, dopo una giornata di lavoro e di telefonate relative al mercato del Genoa: è a casa, l’unica cosa di cui sente la necessità è un po’ di relax. Ma intorno alle dieci di sera riceve una chiamata dalla sua addetta stampa.
“Mi disse che il Secolo XIX stava chiedendo conferma di un presunto accordo che avevamo trovato con Alan Shearer. Le dissi di riferire al giornale che era tutto vero: contratto triennale, avrebbe giocato con il Genoa. Mi era sembrato uno scherzo divertente: mai avrei pensato che lo mettessero in prima pagina” Nasce così, un po’ per noia, un po’ per divertimento, una delle storie di mercato più assurde che il calcio italiano abbia mai dovuto maneggiare. I giornalisti del Secolo XIX, forti di una conferma che più diretta non si può, lasciano che la storia faccia il suo corso.
Per dirla con le parole di Fabrizio De André, una notizia un po’ originale non ha bisogno di alcun giornale. E così, con il passare delle ore, vola veloce di bocca in bocca, fino ad arrivare in Inghilterra. Alan Shearer, in quegli anni, è un monumento del Newcastle e un totem della Premier League: a fine carriera i gol segnati dal 1992, anno del passaggio dalla First Division al nuovo torneo, saranno 260. In quel momento sono solamente, si fa per dire, 243. Il Newcastle ha appena chiuso la stagione al quinto posto e ha raggiunto la semifinale di Coppa Uefa. E tutti i media inglesi si chiedono come sia possibile un affare del genere. Su quali basi, per il club e per un giocatore di questo calibro? Il club smentisce, l’ex capitano dell’Inghilterra cade dalle nuvole.
“Ho letto di questa notizia, ma è totalmente falsa. Mi rimane un solo anno da calciatore, il mio unico obiettivo è riuscire finalmente a vincere qualcosa con il Newcastle, che ha i migliori tifosi del mondo. Considererei di lasciare solamente se Bobby Robson mi dicesse che non sarò un titolare nella prossima stagione”
12/14/2022 • 7 minutes, 37 seconds
L’ULTIMO gol di LE TISSIER ||| Quando LE GOD fece esplodere SOUTHAMPTON
Se mai dovesse capitarvi di passeggiare per le strade di Southampton alla ricerca di quello che fu il vecchio stadio dei Saints, non trovereste altro che un centro residenziale. È il prezzo da pagare per la modernità: il St Mary’s sorge a pochi metri dalle rive del fiume Itchen mentre il The Dell era uno di quegli impianti squisitamente britannici, con gli spalti che trovavano spazio in mezzo alle case, spuntando all’improvviso tra i vicoli. Lì dove una volta c’era il prato, oggi c’è il parcheggio interno del condominio. E tra i vari appartamenti ce ne è uno riadattato a casa vacanze, prenotabile online, senza fatica. I gestori, con una mossa illuminata, gli hanno dato il nome dell’uomo che su quel prato aveva guadagnato i gradi di divinità. E che, in quanto tale, aveva realizzato l’ultimo gol segnato in gare ufficiali all’interno di quello stadio. 19 MAGGIO 2001 – ULTIMA PARTITA UFFICIALE AL THE DELL L’incredibile carriera di Matthew Le Tissier sta giungendo al termine. Non aveva mai avuto i crismi dell’atleta modello, ma da un paio d’anni il suo declino pare evidente. È costantemente sovrappeso, non riesce a reggere i ritmi di una Premier League che è cambiata sotto i suoi occhi, diventando un campionato sempre più competitivo, in grado di attirare campioni che per anni avevano snobbato l’Inghilterra. Per amore del Southampton, o anche solo per la volontà di non uscire dalla comfort zone che si era creato, nel corso degli anni aveva rifiutato offerte di ogni tipo. Nel 1990 aveva detto no al Tottenham, la squadra per cui faceva il tifo da bambino. Seguiva le partite degli Spurs da lontano, da Saint Peter Port, la capitale di Guernsey, un pezzo di terra che sorge tra la Francia e l’Inghilterra: Channel Islands, le chiamano da quelle parti. Una zona particolare, che ricade sotto le dipendenze della Corona non per la sovranità del Regno Unito, ma per quella dell’antico Ducato di Normandia. Era arrivato giovanissimo al Southampton e non se ne era più andato, segnando gol incredibili, perché il modo di calciare di Le Tissier non aveva rivali. Era in grado di trovare la porta da distanze siderali, con angoli impossibili. Vederlo ciondolare in mezzo al campo palla al piede, abbozzando dribbling che riuscivano soltanto grazie al suo straordinario talento tecnico, non potendo contare sulla rapidità, era un’esperienza per certi versi addirittura surreale. Esiste una generazione cresciuta vedendo i gol di Le Tissier in maniera fugace, in quelle sintesi iper rapide che passavano sui canali secondari o satellitari, un rifugio per gli esteti. Italiani, tedeschi, spagnoli, rapiti a guardare delle magie che passavano in tv di sfuggita, con sorpresa e ammirazione. «In una tv catalana c’era un programma di mezz’ora ogni lunedì in cui facevano vedere i migliori gol della Premier League. Le Tissier c’era sempre, ogni settimana. Faceva dei gol assurdi. Pum! Pallone sotto l’incrocio. Pam! Finta e pallone sopra la testa di un difensore per poi fare gol. Pum! Una punizione incredibile. Mi chiedevo: “Ma perché rimane al Southampton? Potrebbe giocare con chiunque!”. In casa eravamo tutti fissati per lui» (Xavi) Aveva avuto un rapporto a dir poco controverso con la Nazionale inglese. Nonostante le prodezze, non era entrato per davvero nel giro fino all’arrivo in panchina di Glenn Hoddle, il suo idolo da bambino: era il 1996, con i sogni del primissimo «Football’s coming home» mandati in fumo dal rigore di Gareth Southgate contro la Germania. Si era ritrovato in campo in una partita dal peso specifico enorme, quella di Wembley contro l’Italia. Una gara che l’Italia di Cesare Maldini aveva vinto grazie a una saetta di Gianfranco Zola, lasciando a bocca aperta gli inglesi, che pure erano già abituati da qualche mese a vedere da vicino le giocate di quello che avevano ribattezzato, con un tocco di genialità, “Magic Box”.
11/11/2022 • 9 minutes, 9 seconds
L'attore di DEADPOOL ha comprato la 3ª squadra PIÙ ANTICA del mondo per portarla in Premier League
“Odio dirlo, ma ora sono così ossessionato dal calcio che sto iniziando a odiarlo” (Ryan Reynolds) Se siete appassionati di cinema, il nome di Ryan Reynolds sicuramente vi suona familiare. Potrebbe risultarvi un po’ più oscuro(.) quello di Rob McElhenney, ma se nel corso degli anni avete amato la serie It’s Always Sunny in Philadelphia, allora non avrete dubbi neanche su di lui. Ok, ma cosa c’entrano due attori, produttori e sceneggiatori con una delle storie di Cronache? Questo insospettabile duo ha deciso di investire 2 milioni e mezzo di dollari nel Wrexham, club gallese che milita nella National League, il quinto livello del calcio inglese. Una mossa apparentemente senza senso, vista la distanza dalla Premier League, ma che in poco più di un anno e mezzo ha già portato frutti notevoli. Il Wrexham, per la coppia di attori, rappresentava una base intrigante da cui partire: buonissime strutture per la categoria e una storia interessante. Se è ancora più o meno dibattuto il fatto che rappresenti la terza squadra professionistica più antica della storia, non sembrano esserci dubbi sul fatto che sia il club più antico del Galles. Lo stadio è sempre lo stesso dall’anno della fondazione, il 1864: si gioca al Racecourse Ground, un impianto costruito addirittura nel 1807. Il suo primo utilizzo, come è facile intuire dal nome, fu quello di ippodromo. La prima partita di calcio giocata al Racecourse Ground fu quella tra il Wrexham e una selezione cittadina di vigili del fuoco: era il 22 ottobre del 1864. Nel corso della sua lunghissima storia, non è mai andato al di sopra della Seconda Divisione inglese, apice raggiunto nella stagione 1978-79, stesso anno in cui costrinsero al replay il Tottenham nel quarto turno di FA Cup. Parallelamente, il Wrexham disputava anche la Coppa del Galles, vinta ben 23 volte: questo gli ha permesso, nel corso degli anni, di partecipare spesso alla Coppa delle Coppe. Il miglior risultato europeo della storia del club è il quarto di finale raggiunto nel 1976, perso di misura contro l’Anderlecht.
11/4/2022 • 5 minutes, 9 seconds
L'ULTIMA CHAMPIONS della Juventus ||| Ajax - Juventus 1996
Il primo indizio su chi vincerà la finale di Champions League 1996 Juventus-Ajax compare sullo schermo quando l'arbitro Diaz Vega ha fischiato l'inizio da meno di dieci secondi. Davids appoggia a Frank De Boer che allarga a sinistra per Winston Bogarde, un metro e 95, il più alto dei colossi olandesi. A naso, un frontale con Bogarde non sembra il modo migliore per iniziare una finale di Champions: ma non è questa l'idea di Moreno Torricelli, che debutta nella partita falciandolo di netto nella sorpresa dello stesso Bogarde, che non si aspettava di essere livellato al suolo dopo dieci secondi. L'Ajax campione in carica, presuntuoso e ottimista come da tradizione olandese, non se l'aspettava una Juventus così.Nella primavera 1994 la Juventus ha sterzato di 180 gradi, passando da Boniperti e Trapattoni alla cosiddetta Triade – in ordine alfabetico Roberto Bettega, Antonio Giraudo e Luciano Moggi – che come primo atto fondante della rivoluzione ha messo in panchina Marcello Lippi, tecnico senza pedigree che non è ancora andato oltre un piazzamento UEFA con il Napoli. Scelta felicissima. La squadra da battaglia che il 22 maggio 1996 aggredisce e soffoca l'Ajax in un pressing senza quartiere è la fusione di tre anime distinte e complementari, la modernità e la tradizione. La prima anima è quella tecnica, nata dopo una pesante sconfitta a Foggia nell'ottobre 1994: da quel giorno Lippi ha ordinato ai suoi uomini di rischiare, alzare il baricentro, sottoporre ogni avversario a un pressing feroce. La squadra l'ha seguito compatta come un blocco di granito già dalle partite successive: due settimane dopo, l'1-0 con il Milan campione d'Italia e d'Europa finito 11 volte in fuorigioco ha fatto capire a Lippi che la strada è quella giusta. C'è un grande leader motivazionale a dare l'esempio e tirare la carretta, Gianluca Vialli. A seguirlo un gruppo di buoni giocatori, nessun campione, accomunati dalla fame di chi ha mangiato il pane duro della bassa serie A o addirittura della serie B: Angelo Di Livio, Antonio Conte, Sergio Porrini, Fabrizio Ravanelli. Il caso più eclatante è quello di Moreno Torricelli, pescato nel 1992 dalla Juventus nel reparto Imballaggi & Spedizioni di un mobilificio di Giussano, dove pare che sia esposta una targa in omaggio al loro dipendente più famoso. Giocava in serie D, nella Caratese, e ha folgorato Trapattoni in un'amichevole estiva tanto che il Trap ha insistito con la società per regalargli un mese di prova. Non se n'è più andato. Roberto Baggio lo ha soprannominato “Geppetto” e ogni tanto, scherzando, gli chiede se può sistemare i tavolini che ballano in spogliatoio; ascolta musica heavy metal, in campo gioca con una foga agonistica ineguagliabile e uno sguardo spiritato che all'Avvocato ricorda gli occhi di Totò Schillaci nelle Notti Magiche di Italia 90.Tutti i giorni, fin dal ritiro di Chatillon, li torchia in allenamento “il marine”: Giampiero Ventrone. Ventrone fa segnare un passaggio brutale dalle preparazioni soft di Trapattoni a quattro-cinque ore di palestra di seguito, con punte di sadismo inedite per il calcio degli anni Novanta. Il principale strumento di tortura si chiama “la campana della vergogna”, un esercizio che stimola non solo i muscoli ma anche l'orgoglio: enorme, tutta dorata, la campana sta in un angolo del campo, onnipresente in ognuno dei massacranti esercizi fisici ideati da Ventrone. Il primo giocatore a mollare è obbligato ad andarla a suonare, in segno di resa: un momento che li umilia anche psicologicamente davanti ai compagni. E ora guardatele quelle facce nel momento più importante della loro carriera, mentre Andrea Bocelli sta cantando l'inno della Champions. Sono impressionanti: non ce n'è uno che stia fermo, tutti scalpitano, sciolgono i muscoli, sbuffano, impazienti di scaricare la tensione di queste settimane.
10/25/2022 • 22 minutes, 24 seconds
RONALDO ‘98 ||| Quando il FENOMENO diventò LEGGENDA
Proviamo a fare un piccolo esperimento. Chiudete gli occhi. Se vi dico: «Pensate alla prima immagine di Ronaldo con la maglia dell’Inter nella sua prima stagione», cosa vi viene in mente? Il gol a Parigi contro la Lazio, quella danza che stende Marchegiani e consegna definitivamente la Coppa Uefa all’Inter dopo le firme di Zamorano e Zanetti? Oppure quella sfida aperta all’impenetrabilità dei corpi a Mosca, il controllo orientato in mezzo a due centrali dello Spartak ridotti a sagome, la capacità di pattinare sul fango tra un difensore e l’altro come se fosse totalmente incorporeo? La sterzata a Bologna nel giorno del suo primo gol in Serie A, la finta di calciare con il destro per poi ritrovarsi il pallone di colpo sul sinistro, con Paganin incapace di elaborare in pochi secondi quanto stava accadendo? O forse la punizione a giro contro il Parma, un bacio alla traversa e Buffon impietrito, impossibilitato ad abbozzare una qualsiasi reazione? E se invece fosse quella fuga alle spalle dei centrali milanisti nel giorno del derby di ritorno? Moriero che mette in mezzo un pallone telecomandato dalla trequarti e il corpo di Ronaldo che si modella in volo per trovare il modo migliore per andare all’impatto, l’emblema plastico del concetto che si portava dietro in una celebre campagna pubblicitaria: la potenza è nulla senza controllo. Sono tutte scelte legittime, perché pescare dall’album dei ricordi di quella prima stagione interista di Ronaldo è praticamente impossibile. Non c’era nulla che non potesse fare, nulla che non gli riuscisse. Faceva sembrare tutto facile anche quando era tremendamente difficile. Eppure, se qualcuno mi costringesse, pistola alla tempia, a prendere una sola azione, un solo frammento di quel Ronaldo imprendibile, di quel Ronaldo che purtroppo non avremmo più visto da lì a poco, non avrei dubbi.
10/18/2022 • 38 minutes, 52 seconds
La STORIA di Pierluigi COLLINA ||| Il miglior ARBITRO di SEMPRE
Chi è stato in campo in una finale Mondiale, finale di Champions, finale olimpica, in Real Madrid-Barcellona, Argentina-Inghilterra, Germania-Inghilterra, Inter-Juve, Milan-Juve, derby di Milano, derby di Roma, Torino, Genova? Nessuno. Anzi, uno sì. Il più bravo di tutti: Pierluigi Collina. C'era lui quando Ronaldo il Fenomeno segnò tre gol a Old Trafford, o quando Ronaldinho incantò con un balletto la difesa del Chelsea, o quando l'Inghilterra segnò cinque gol in casa della Germania. È uno dei pochi ad aver fischiato un fallo da rigore commesso da Cristiano Ronaldo nel match inaugurale degli Europei 2004, Portogallo-Grecia. Collina è un personaggio a metà tra un film di Clint Eastwood e uno di Quentin Tarantino, un eroe solitario – perché l'arbitro è per forza un uomo solo - con una personalità debordante, sguardo magnetico, fisionomia da Avenger e in particolare un dettaglio inconfondibile – la calvizie – che negli anni è diventata un punto di forza e l'ha reso una celebrità di fama mondiale. Prima di imporre in tutto il mondo la sua proverbiale pelata che l'ha fatto finire sulla homepage del celebre sito pirata RojaDirecta e sulla copertina di Pro Evolution Soccer – primo e unico arbitro a riuscirci – Collina è un uomo che ha sofferto, è sceso a patti con la sua malattia e si è disegnato una traiettoria spaziale attraverso due stelle polari: lo sport e le regole. Un esempio di vita, un uomo che, come i più grandi calciatori e allenatori, ha aiutato il suo sport a migliorare.
10/14/2022 • 31 minutes, 41 seconds
La SEDIA di Mondonico ||| La MALEDIZIONE del Torino ‘92
Tre generazioni di tifosi del Torino hanno vissuto il giorno più importante della loro vita da tifosi nella prima metà di maggio. Il 4 maggio 1949, Superga, la scoperta che il destino ce l'ha con te. Il 16 maggio 1976, l'ultimo scudetto. Una gioia imprevista, incredibile, rabbiosa come nei pugni stretti di Gigi Radice coi pantaloni a zampa d'elefante, arrabbiato per il pareggio con il Cesena, una gioia da Toro. E infine il 13 maggio 1992, una sconfitta, anzi due pareggi. Una sedia. Trent'anni dopo, con i social, con Instagram, in trenta secondi questa foto avrebbe fatto il giro del pianeta. Questa foto, anzi questo fermo immagine, ha una potenza evocativa devastante, parla contemporaneamente tutte le lingue del mondo, tutte le lingue del calcio. È un’invocazione, un’imprecazione, tutto ciò che è il calcio dalla parte degli sconfitti.
9/12/2022 • 20 minutes, 13 seconds
Michel PLATINI alla Juventus || Il TRASFERIMENTO del RE a Torino
L'Avvocato Gianni Agnelli e la Francia hanno sempre avuto un rapporto privilegiato. Dalle parti di Casa Agnelli affiora ogni tanto una battuta che, come tutte le battute, possiede sempre un fondo di convinzione in chi la pronuncia: “Il Piemonte non è una regione della Francia, è la Francia che è una regione del Piemonte”. Tanto addirittura da sposarsi, in Francia, con Marella Caracciolo, precisamente nel castello di Osthoffen, vicino Strasburgo, il 19 novembre 1953. Ma un anno prima, sempre in Francia, ha avuto l'incidente che gli ha cambiato la vita. Pochi giorni dopo Ferragosto, al culmine di un'estate leggendaria in Costa Azzurra, dedicandosi a una delle sue grandi passioni – l'altra è il calcio. Si trova su una Fiat station-wagon in compagnia di Anne-Marie d'Estainville, bellissima ragazza di 17 anni al debutto in società: insieme a lei sta tornando da una festa organizzata dal banchiere ungherese Arpad Plesch. Per lei ha litigato con la sua compagna di allora, Pamela Digby, già ex moglie dell'unico figlio di Winston Churchill. Dopo una scenata di gelosia Gianni Agnelli esce dalla sua villa di Beaulieu insieme ad Anne-Marie, schiaccia a fondo l'acceleratore e sulla statale 98 che collega Nizza a Mentone – chiamata appunto la Basse Corniche – fa un frontale con un furgoncino Lancia su cui sono a bordo quattro macellai, nella più classica delle contrapposizioni tra quelli che si sono già svegliati per andare a lavorare e chi invece non è ancora andato a dormire. Il camioncino viene sbalzato contro una parete di roccia: due dei quattro passeggeri perdono la vita. L'auto è in frantumi. La ragazza esce quasi illesa, soccorsa e portata via prima dell'arrivo della polizia dall'auto di un altro suo amico che aveva partecipato alla festa. Ma l'Avvocato non ne esce indenne: la gamba destra è fratturata in sette punti diversi. Trasportato alla clinica Lutetia di Cannes, finisce sotto i ferri per parecchie ore e l'intervento non riesce bene, tant'è che sarà costretto a nove mesi di immobilità, prima che l'amputazione della gamba venga scongiurata dal professor Achille Dogliotti, fuoriclasse della chirurgia torinese. Come eterno ricordo di quella serata, una menomazione permanente alla gamba che lo costringerà ad aiutarsi sempre più spesso con il bastone – un bastone molto dandy, in pieno stile Agnelli.
9/6/2022 • 25 minutes, 19 seconds
Le QUALIFICAZIONI più ASSURDE della STORIA DEL CALCIO ||| 17 novembre 1993
17 novembre 1993
Tutto in una notte, l'ultima notte europea di un vecchio calcio, di un vecchio sistema. Prima che l'Unione Sovietica e la Jugoslavia si dividessero in mille frammenti, l'ultima notte della Cecoslovacchia, l'ultima notte di qualificazione a un Mondiale a 24 squadre, con molti meno posti disponibili. La notte che cambierà la vita di almeno cinque persone diverse.
DAVID GINOLA
SANTIAGO CANIZARES
DINO BAGGIO
PAUL BODIN
DAVIDE GUALTIERI
Oltre a quello della Germania campione uscente, l'Europa ha dodici posti: le prime due di ognuno dei sei gironi di qualificazione. L'Europa sta cambiando profondamente: già dall'Europeo 1996 ci saranno molte nazionali in più, la frammentazione della Jugoslavia e dell'Unione Sovietica porterà una quindicina di nuovi Paesi.
Qualificazioni strane. La prima europea a qualificarsi aritmeticamente è stata non l'Italia, non la Spagna, non l'Inghilterra, non l'Olanda... ma LA GRECIA, al suo primo Mondiale nella storia. Poi la Russia, che non è più URSS, non ha più la scritta CCCP sulle maglie, ha cambiato bandiera... ma si è qualificata. Poi qualcun'altra alla spicciolata, la Norvegia che è clamorosamente seconda nel ranking FIFA. Una settimana fa è capitato alla Svezia, altra squadra da tenere d'occhio, come tutte quelle del Nord Europa. La sera del 17 novembre 1993 ci sono ancora otto posti da assegnare e sono ancora tante le squadre in ballo: ci sono l'Inghilterra, l'Olanda, il Portogallo, la Francia, la Spagna, il Belgio, i campioni d'Europa della Danimarca... L'ITALIA!
Capitolo 1
Inghilterra
L'Inghilterra deve seppellire di gol San Marino, vincendo con almeno 7 gol di scarto, e sperare che l'Olanda perda in Polonia: il Daily Mirror ha promesso 10mila sterline (circa 25 milioni di lire) ai polacchi se batteranno l'Olanda.
La serata inizia in modo grottesco, con il gol di Davide Gualtieri su sciagurato errore di Stuart Pearce, con gli inglesi che riescono a prendere gol da calcio d'inizio a favore dopo 8,3 secondi, che per 24 anni rimarrà il gol più veloce della storia delle qualificazioni mondiali, battuto da Christian Benteke contro Gibilterra, 8,1 secondi, nel 2017.
Quando due anni dopo sarà la Scozia a venire a giocare a San Marino in una partita di Qualificazioni Europee, i tifosi scozzesi indosseranno t-shirt con la scritta “GUALTIERI, EIGHT SECONDS”, e lui stesso verrà coinvolto in infiniti giri di bevute gratis.
L'Olanda soffre per un tempo, anche se in Polonia sono molti più gli olandesi che i polacchi, poi è una doppietta di Dennis Bergkamp a chiudere il discorso. L'Inghilterra è fuori da un Mondiale dopo 16 anni. Graham Taylor, il ct famigeratamente noto con l'appellativo di “testa di rapa” presso i tabloid” dopo l'eliminazione ai gironi di Euro 1992, verrà silurato e sostituito da Terry Venables.
Capitolo 2
Galles
GRUPPO 4
Belgio 14
Romania 13
Cecoslovacchia 12
Galles 12
Belgio-Cecoslovacchia (Bruxelles)
Galles-Romania (Cardiff)
Cecoslovacchia ha ancora chances? Se vince sì, anche se politicamente non esiste più da Capodanno... Se il Galles batte la Romania di due gol di scarto è dentro, ma è dentro anche con una semplice vittoria se la Cecoslovacchia non vincerà in Belgio: e la partita finirà 0-0.
un mix di vecchi giocatori, come Mark Hughes (squalificato), Ian Rush o il portiere Neville Southall, da 10 anni portiere dell'Everton, con la new wave rappresentata da gente come Ryan Giggs o Gary Speed.
Tutto il Regno Unito guarda con simpatia al piccolo Galles, che non va ai Mondiali dal 1958 – quando fu eliminato ai quarti dal Brasile, 1-0 gol di Pelé, e ha ricevuto telegrammi di incoraggiamento da Lady Diana, George Best, il primo ministro inglese John Major.
Il Galles non perde a Cardiff Arms Park dal 1910.
Dean Saunders: “Ho giocato 850 partite nella mia carriera, quella contro la Romania è stata sicuramente la più dolorosa”. Confronto di stili tra il calcio rumeno piuttosto cadenzato, con artisti come Hagi e signori giocatori come Raducioiu, Munteanu (
8/30/2022 • 37 minutes, 20 seconds
Il NUBIFRAGIO di Perugia ||| SCUDETTO 2000
Prendete la vostra serie tv preferita. Breaking Bad, Stranger Things, La Casa di Carta, Lost, quella che volete. Ci troverete mistero, pathos, colpi di scena, anche qualche elemento surreale, forse soprannaturale. Bene: qualunque sia il momento più alto della più geniale delle serie tv, sappiate che in Italia l'abbiamo già scritto meglio. Quello che è successo dalle 15 alle 18 del 14 maggio 2000 rappresenta ancora oggi la più grande sceneggiatura mai immaginata dal nostro calcio.
Questo è il racconto dello scudetto del 2000, interpretato da Gianluca Fraula e scritto da Giuseppe Pastore.
8/16/2022 • 18 minutes, 20 seconds
La partita FANTASMA ||| Cile-URSS 1973
Questa è la storia di un no. Di una serie di no. Missing (1982) di Costa Gavras, con Jack Lemmon e Sissy Spacek – nel cuore della notte di una Santiago desertificata dal coprifuoco, vediamo correre un cavallo bianco inseguito da una camionetta di soldati, una scena assurda e poetica insieme, una specie di quel realismo magico sudamericano, un'atmosfera sospesa in una realtà squallida e disperata. il film racconta la storia del giornalista americano Charles Horman, freelance che viveva in Cile con la moglie, ucciso nei sotterranei dello stadio Nacional di Santiago, il 19 settembre 1973, e sepolto all'interno di un muro Salvador Guillermo Allende Gossens, il primo presidente dichiaratamente marxista a essere stato eletto in uno stato americano, eletto nel 1970 a capo di una coalizione di sinistra. Attira tante simpatie in tutto il mondo, ma il suo è un governo debole fin da principio, soprattutto perché le sue drastiche riforme sociali ed economiche piacciono sempre meno ai potenti del mondo. Soprattutto il programma massiccio di nazionalizzazioni che sottrae al controllo degli investitori esteri – leggi, gli USA – le miniere di rame, una delle principali risorse del Paese. Alle sette del mattino dell’11 settembre 1973 alcune navi della Marina militare cilena occupano il porto di Valparaíso, sull’Oceano Pacifico, mentre a Santiago le forze aeree e i carri armati dell’esercito fanno scattare l'”Operazione silenzio”, bombardando le sedi e le antenne di tutte le stazioni radio e tv. Alle 8.30 le forze armate dichiarano di aver preso il controllo del Cile. Le guida Augusto Pinochet, che Allende – ritenendolo un militare tutto d’un pezzo e fidato – ha nominato generale capo dell’esercito nemmeno un mese prima. Alle due del pomeriggio è tutto finito: Allende viene rinvenuto senza vita nel suo ufficio, ucciso da alcuni colpi di AK-47, un fucile regalatogli da Fidel Castro, con cui si è sparato due colpi (alla testa?).
8/10/2022 • 25 minutes, 39 seconds
Quando MARADONA giocò l'assurdo SPAREGGIO INTERZONA
“Dottore, come devo allenare Maradona?” “Tu hai mai visto allenarsi un gatto? Gli basta nutrirsi e riposare per essere il migliore”
Le vie del Mondiale sono praticamente infinite. C’è quasi sempre una seconda chance per le grandi squadre che steccano al primo tentativo. Ma se in Europa siamo abituati a risolvere la contesa all’interno dei confini continentali, per le altre confederazioni la musica è diversa, e spesso bisogna vedersela con il mitologico spareggio interzona. Per Usa 1994, solamente un posto passa dall’incrocio tra squadre di continenti diversi: un primo turno preliminare tra la seconda classificata dell’area Concacaf e la vincente del percorso dell’Oceania, quindi la finalissima tra la superstite e la seconda classificata del Gruppo A del cammino sudamericano. Il sistema cervellotico riguarda soprattutto i gironi della Conmebol, la confederazione sudamericana.
7/28/2022 • 7 minutes, 29 seconds
Lo scudetto dello Spezia ||| Quando i Vigili del Fuoco sconfissero il Grande Torino
Novembre 1943, primo mattino: qualcuno bussa alla porta della villa romana di Ottorino Barassi, segretario della Federcalcio. “Gestapo”. Hanno saputo che da qualche parte, a Roma, si nasconde la Coppa del Mondo: la prima versione, quella con la Vittoria Alata, che l'Italia detiene per averla vinta nel 1934 e nel 1938. Barassi non cade dalle nuvole, già da qualche giorno è stato avvisato che i nazisti vogliono mettere le mani su quei due chili d'oro: chissà, magari la pretende Hitler in persona. Adesso la Gestapo ha un mandato di perquisizione e, mentre la signora Barassi prova a distrarre gli ufficiali in divisa, suo marito prega ardentemente che non guardino lì, proprio lì, sotto il letto, dentro una scatola di scarpe nera piena di trucioli dove riposa e si nasconde la Coppa del Mondo...
Questo è il racconto dello scudetto del 1944, interpretato da Giulio Incagli, scritto da Giuseppe Pastore con riferimenti al testo Lo scudetto dello Spezia scritto da Armando Napoletano ed edito da Edizioni Giacché.
7/22/2022 • 36 minutes, 59 seconds
ANCELOTTI al MILAN ||| Il maestro della CHAMPIONS
Si dice che non bisogna mai tornare nei posti dove si è stati felici. Per un allenatore è ancora più vero. Prendete Sacchi e Capello, che a metà anni Novanta hanno commesso l'errore di farsi prendere dalla nostalgia e sono andati a schiantarsi uno dopo l'altro contro un Milan senza capo né coda. Carlo Ancelotti li conosce bene. Eppure è proprio quello che sta facendo, pensa, mentre si fa lentamente la barba prima di uscire di casa: sta tornando a Parma, di cui è già stato allenatore buono ma non ottimo, non abbastanza per essere confermato, dal 1996 al 1998. A soli 42 anni è già la rappresentazione plastica della parabola discendente. Il Parma sta perdendo colpi, ha venduto Buffon e Thuram alla Juventus e l'idea era di sostituirli soffiando a peso d'oro Toldo e Rui Costa alla derelitta Fiorentina. Ma invano: il blitz non è riuscito, i giocatori hanno rifiutato il trasferimento, Parma rimane sempre una piazza di secondo o terzo piano per i big. Capello, per esempio. Nel 1996 aveva già sottoscritto una bozza d'accordo con il presidente Pedraneschi, aveva già dato il suo assenso informale ad allenare una squadra di smisurate ambizioni a caccia del primo scudetto, era andato a cena a fine marzo per limare gli ultimi dettagli, poi... “mi dispiace, non vengo più”. Leggenda vuole che dopo la cena fosse stato assalito dalla depressione alla vista delle vie del centro, spente e desolate. E allora il Parma dovette ripiegare... su Ancelotti.
Mah, tornare a Parma. Ancora pochi mesi e verrà fuori in tutto il suo clamore il gigantesco bluff perpetrato per anni da Calisto Tanzi. È decimo in classifica, a due punti dal quartultimo posto, con giocatori senza sale come Micoud o Milosevic, o incompiuti come Hidetoshi Nakata che la Roma ha sbolognato senza troppi rimpianti, pur essendo entrato nei due-gol scudetto nello scontro diretto contro la Juve... di Ancelotti. Ma che stai facendo, Carletto? Com'è che la discesa sta andando così velocemente? Sei mesi fa eri alla Juventus, è vero, non hai vinto niente, e in Italia se arrivi due volte secondo, magari sommando 144 punti in due campionati come hai fatto tu, sei doppiamente perdente: ti porti dietro non solo la sconfitta, ma anche la puzza di sfiga, la derisione per esserti illuso e poi ritrovato con un pugno di mosche. È questo senso di abitudine alla sconfitta che non dev'essere piaciuto a Moggi e Giraudo, oltre al fatto che Ancelotti non è mai stato uno “di loro”. I tifosi non l'hanno mai sopportato, paragonandolo al maiale: come se maiale fosse un insulto, detto a un emiliano poi. Il suo stile pacioso mal si concilia con quell'attitudine da coltello tra i denti che bisogna avere quando alleni la Juventus. Al passivo anche un grave errore di valutazione, il non accorgersi che Thierry Henry non era un semplice esterno, da schierare a volte addirittura a tutta fascia, ma qualcosa di più. Eppure, se ci fosse stata la pazienza e l'attenzione di osservare bene, ci si sarebbe accorti dell'ottimo lavoro fatto sul giovane Zambrotta, del lustro restituito a Zidane dopo la stagione anonima post Francia '98, della ricostruzione di Del Piero che era finito sotto un treno dopo l'infortunio al ginocchio e gli errori davanti a Barthez nella finale di Euro 2000. Invece è stato cacciato in malo modo, al culmine di una conferenza stampa farsesca che era iniziata con gli applausi dei giornalisti, un onore che non era mai stato riservato nemmeno a Trapattoni, ed era finita con Moggi che dava la colpa dell'esonero di Ancelotti alla carta stampata. Eppure a nemmeno quarant'anni era stato scelto per dare ordini al meglio del meglio che c'era in Italia allora, Del Piero e Zidane, Trezeguet e Pippo Inzaghi. A proposito, Pippo, come l'hai tirato male quel rigore.
7/13/2022 • 17 minutes, 33 seconds
MATTIA DE SCIGLIO ||| Storie di CICATRICI
Alzo la testa e vedo che sulla lavagnetta luminosa c’è il numero 2. Il mio numero. «De Sciglio, esce De Sciglio», sento gridare. Non ho molto tempo per realizzare, perché in quel preciso istante 70mila persone iniziano a fischiare. Fortissimo. Non capisco: sono stato dato in pasto ai leoni. «Perché cazzo mi sta cambiando?», non riesco a chiedermi altro.
7/11/2022 • 38 minutes, 5 seconds
La storia della CHAMPIONS LEAGUE
Si è da poco conclusa l’ultima della Champions League e se oggi siamo qui a commentare lo spettacolo di una delle competizioni più spettacolari al mondo, lo dobbiamo a due fattori: un’amichevole e un articolo di giornale. Oggi vi spieghiamo tutto, partendo dall’inizio. Il 13 marzo del 1954, in una sfida al Molineux di Wolverhampton, i padroni di casa sconfiggono per 3-2, davanti a sessantamila inglesi in visibilio, i maestri ungheresi dell’Honved, che potevano contare su ben sei degli undici magiari, che un anno prima avevano sconfitto con un netto 6-3 l’Inghilterra a Wembley. Nella formazione dell’Honved c’è anche uno dei calciatori più forti di tutti i tempi, Ferenc Puskas, e la rimonta del Wolverhampton, dallo 0-2 al 3-2, convince il tecnico Stan Cullis a prendere da parte i suoi e a definirli “campioni del mondo”, sullo slancio degli altri successi ottenuti in amichevole contro il Racing Club e lo Spartak Mosca. La dichiarazione viene raccolta da David Wynne-Morgan che la utilizza come titolo per il suo articolo di resoconto del match, pubblicato dal Daily Mail. A svariati chilometri di distanza, l’ex calciatore della Nazionale francese Gabriel Hanot si ritrova tra le mani una copia del Mail. È stato un personaggio irripetibile, Hanot. Difensore dei Galletti nel periodo pre Prima guerra mondiale, aveva poi servito lo stato in guerra, durante la quale si era distinto come pilota d’aereo, e per una fuga da un campo di prigionia tedesco. Aveva fatto in tempo anche a essere nuovamente convocato per la sua dodicesima presenza, da capitano, contro il Belgio, nel 1919, ma la sua carriera si era interrotta bruscamente per un incidente aereo che non gli era costato la vita, ma purtroppo la sua attività da calciatore sì, Infine, dopo il conflitto, aveva assunto l’incarico di consigliere tecnico della Francia, mantenendo però un bizzarro doppio ruolo come firma de L’Equipe e di France Football. Dopo una sconfitta contro la Francia, nel 1949, stilò un articolo durissimo in cui criticava i suoi giocatori e affidava a un editoriale anonimo la richiesta del suo stesso esonero, peraltro poi effettivamente arrivato. Quando legge dei Wolves campioni del mondo, Hanot ha un sussulto. Capisce prima del resto del mondo che c’è bisogno di mettere in piedi una competizione tra le principali squadre europee per assegnare un titolo che non sia soltanto platonico. E lo scrive sull’Equipe, dando il via alla rivoluzione. La Mitropa Cup, ideata nel 1927, veniva ritenuta da Hanot un test troppo poco probante. E proprio Hanot aveva già provato a dare vita a qualcosa di grosso con la Coppa Latina, competizione mai riconosciuta dalla Fifa, alla quale prendevano parte i campioni nazionali di Francia, Italia, Portogallo e Spagna: l’Equipe era stato tra i promotori principali della proposta lanciata da Santiago Bernabeu, presidente del Real Madrid. Ma serviva qualcosa di nuovo: secondo il francese, non si poteva assegnare al Wolverhampton una definizione così importante, non senza vedere gli inglesi alle prese con Real Madrid o Milan.
6/30/2022 • 4 minutes, 58 seconds
5 MAGGIO 2002 ||| Un giorno di FOLLIA nel calcio
Cinque maggio del 2002. Una data fin troppo facile da associare a una giornata di campionato: il tracollo dell’Inter all’Olimpico, la Juventus che non stecca a Udine e vince il titolo in volata, con i nerazzurri che in un pomeriggio da incubo si ritrovano da primi a terzi, scavalcati anche dalla Roma. Ma questa è la storia dell’altro cinque maggio, quello che sancì salvezze insperate, retrocessioni impensabili, rinascite romantiche e qualificazioni europee colte all’ultimo respiro. Tre campi, tre storie, i destini di cinque squadre che si incrociano.
6/4/2022 • 8 minutes, 32 seconds
Il DITTATORE che ingaggiò MARADONA ||| Il calcio OSCURO che APPOGGIA la guerra
La storia del dittatore ceceno che ingaggiò le star del calcio mondiale.
4/11/2022 • 4 minutes, 15 seconds
La STORIA di Enrico CHIESA ||| L’attaccante che RIVOLUZIONÒ il ruolo
Lo stop, il tiro, quell’attimo di sospensione che segue. Come ogni volta, per cercare di immaginare dove andrà il pallone. È una routine che qualsiasi attaccante ha imparato a fare sua sin dalle prime partite giocate con gli amici, un istante che si dilata all’infinito, tra l’impatto e l’epilogo. Può finire bene, può finire male. Ma c’è anche un caso, raro e sfortunato, in cui finisce malissimo. Il 30 settembre del 2001, dopo il solito controllo e la preparazione del tiro, Enrico Chiesa rimane a terra. È l’ancora di salvezza di una Fiorentina che si accinge a una stagione di sangue e sudore con all’orizzonte lo spettro del fallimento, e che in quel momento scopre quanto è brutto dover scendere a patti con le lacrime. Il tendine rotuleo del ginocchio sinistro è saltato, e di conseguenza anche le speranze viola e di Roberto Mancini, che si era battuto per tenere almeno lui dopo un’estate in cui erano già partiti pezzi giganteschi come Toldo e Rui Costa.
Per molti di voi, il nome di Enrico Chiesa è soltanto quello del papà di Federico, che quel giorno del 2001 doveva ancora compiere quattro anni. In realtà, nel suo periodo d’oro, è stato molto di più. Un attaccante che aveva saputo adattarsi al calcio che cambiava, trasformandosi da esterno in punto di riferimento offensivo, fino a diventare un tassello irrinunciabile nel miglior Parma di tutti i tempi. Seppe reinventarsi anche dopo quel terribile infortunio, costruendosi un finale di carriera più che degno, sempre nel segno di un talento troppo spesso sottovalutato e di una forza di volontà che gli ha permesso di essere capitano e gregario, finalizzatore e portatore d’acqua. Tanti giocatori in un corpo solo. Nonostante una stagione più che positiva, lo staff e la dirigenza della Sampdoria ritengono sia il caso di riservargli un altro periodo di apprendistato altrove. Prima Modena, in Serie B, quindi Cremona, in A. Due stagioni da 14 gol l’una e soprattutto l’annata in grigiorosso è decisiva per la sua carriera. In quegli anni, la Cremonese è un laboratorio di calcio autentico, con un padre paziente come Domenico Luzzara, il Presidentissimo, l’uomo che aveva portato avanti il sogno del figlio Attilio, prematuramente scomparso. Aveva rilevato il club sulla spinta del suo affetto più caro: «Papà, mettici i soldi, poi ti spiego tutto io», gli diceva, e così aveva sciolto tutti i dubbi.
Ma nella primavera del 1970 Attilio aveva perso la vita in un tragico incidente stradale, e papà Domenico si era dovuto fare forza nel suo ricordo: «Andrò avanti per Attilio, perché lui amava la Cremonese. Ce l’aveva nel cuore, continuare a guidare questa società significa avere mio figlio ancora con me». Si era circondato di uomini che amavano la “Cremo”, e quella che si afferma stabilmente in Serie A nella prima metà degli anni Novanta ha in panchina un signore d’altri tempi come Gigi Simoni. Per le prime 13 partite di quel 1994-95, Chiesa non trova mai la via della rete. Poi, come spesso capita agli attaccanti, il tappo salta via. Scopre di avere un feeling speciale con le grandi: Roma, Parma, Milan, anche l’amata Sampdoria. Sulle spalle indossa di frequente il numero 7 perché Simoni, passato alla storia come un tecnico pragmatico, è uno che sapeva anche osare, e il tridente con Florjancic e Tentoni si vede in campo spesso e volentieri. «Simoni è stato l’allenatore che mi ha definitivamente fatto fare il salto di qualità. Mi ha fatto capire l’importanza vera del sacrificio, del pensare prima di tutto alla squadra. Non che prima non lo facessi, ma con lui ho avuto la piena consapevolezza». Chiesa che parte da ala destra e diventa il miglior realizzatore della Cremo, grazie ai tagli senza palla e a quella capacità innata di calciare in una frazione di secondo, è una novità per il calcio italiano. «Rientravo sul sinistro, potevo andare a concludere direttamente. Era quello che Simoni riteneva più utile per la squadra».
4/1/2022 • 26 minutes, 49 seconds
CICCIO CAPUTO ||| Dalla PRIMA CATEGORIA alla NAZIONALE
È partito dal basso.
Ha incassato i rifiuti.
Si è rialzato.
Francesco Caputo, dalla Prima Categoria alla Nazionale 🌟
3/22/2022 • 59 minutes, 33 seconds
Le PEGGIORI SCONFITTE a TAVOLINO della storia del calcio
🔘 Le PEGGIORI SCONFITTE a TAVOLINO della storia del calcio 🔘 Il campionato 2020/2021 in poco più di due mesi ha già visto succedere di tutto o quasi. Tra giocatori positivi al Covid, esami di italiano “semplificati” per top player e partite decise a tavolino, il calcio è stato protagonista più fuori che dentro il rettangolo verde. Per esempio il caso del romanista Diawara. Lo scorso 19 settembre, per l’anticipo della prima giornata, i capitolini sono di scena al “Bentegodi”. L’avversario è l’Hellas di Juric e il match finisce 0-0. Un buon punto in una trasferta insidiosa, che però, nel giro di un giorno, viene trasformato in sconfitta. Il ragazzo con la maglia 42, infatti, era stato schierato per quasi 90 minuti, nonostante fosse fuori dalla lista consegnata dai giallorossi. Il Giudice Sportivo assegna il 3-0 a tavolino ai veneti che così si guadagnano i primi tre punti in classifica. Passano due settimane ed e’ in programma Juventus – Napoli. La storia è nota: l’ASL campana blocca la squadra di Gattuso che a Torino non si presenta. Dopo dieci giorni di attesa, ecco arrivare la sentenza: 3-0 per i bianconeri piu’ un punto di penalizzazione per gli azzurri. Le polemiche impazzano, ma il pallone, nel corso della sua ultracentenaria storia, ha vissuto match con situazioni molto più particolari. Talmente particolari da richiedere l’intervento della Giustizia Sportiva.